Il collega giace in stato vegetativo da ieri, lo danno senza speranza. Non ne ero amico, ma lo stimavo. Come si tende a stimarsi tra quelli che sono sopravvissuti sulla breccia per tanto tempo, con le spalle grosse.

Le notizie corrono sulla rete, si propagano in un batter d’occhio. Sempre che qualcuno ce le immetta. E ieri a nessuno che ne fosse informato è venuto in mente di far sapere agli altri che Francesco Arrigoni era in fin di vita. Aneurisma cerebrale, pare. O forse un ictus. L’hanno trovato in un bosco. C’è chi dice che sia vivo, ma in stato vegetativo. Chi dice che sia morto. Chi già si prodiga nei coccodrilli.
Francesco Arrigoni è (era?) un collega stimato. Un po’ orso, ma serio. Non siamo mai stati amici, ci siamo sempre conosciuti poco. Ci salutavamo di sfuggita, con reciproco imbarazzo forse. E adesso non starò qui a recitare la commedia dell’amico inconsolabile. Però mi dispiace, mi dispiace tantissimo. Non so perchè. Forse perchè avevamo cominciato più o meno insieme, sebbene lui fosse sempre stato preceduto dalla sua fama di tipo “difficile”. Tuttavia me lo ricordo, alle prime armi, per redazioni, in quel mix di determinazione e di ansia che contraddistingue le nuove leve.
Era il delfino prediletto di Veronelli. E, ecco, mi accorgo che ne sto già parlando al passato. Ci siamo visti decine di volte, incontrati decine di volte, letti decine di volte. Una persona severa, preparata, ma poco socievole, cosa che spesso questo lavoro fatto (anche) di capacità di proporsi e di sorridere, non ti perdona. Un vero bergamasco, insomma. Dicono si fosse isolato, non so dire se fosse vero. Certamente non era un presenzialista. Non uno che aveva fatto la brillante carriera che forse aveva i mezzi per meritare. Ma c’era. Insomma, era uno della non dico vecchia guardia, ma comunque di quelli che avevano cominciato quando il giornalista di settore era una professione vaga, coltivata tra pochi.
Non era pensabile, nè è concepibile, che potesse sparire in questo modo. Era una sorta di istituzione senza, per fortuna, essere ancora un monumento. E così, mentre i ricordi si moltiplicano e la sensazione di precarietà si insinua sotto la pelle, questo ci rende tutti un po’ più poveri e un po’ più tristi. Anche se lo spettacolo continua.