Avevamo cominciato, in qualche modo, insieme. Anche se avevi qualche anno più di me.
Tu eri approdato all’ufficio stampa della Regione Toscana quando io, praticamente esordiente dopo un biennio da aspirante pubblicista, consolidavo l’esperienza di corrispondente di fatto per una testata “difficile” come Il Giornale di Montanelli.
Ci siamo interfacciati, frequentati per due lustri quasi quotidianamente, con ruoli diversi ma mai su sponde contrapposte, nonostante molti divergenti punti di vista.
Era una stima vera e reciproca, che passava oltre le posizioni a volte fatalmente in conflitto.
Quello però, il tuo, era davvero un ufficio stampa formidabile, pieno di gente capace da cui ho imparato moltissimo. Pronto, corretto, sempre disponibile e soprattutto di una professionalità ineccepibile. Alla quale tuttavia non mancava mai la spinta umana, la complicità, la capacità di sorridere e di decontestualizzare le circostanze in cui ci trovavamo a lavorare.
Spesso ti affidavano l’assessorato all’agricoltura, uno dei miei pani quotidiani. Mi ricordo le discussioni con te sugli archivi della Confederterra, poi quelle su Conso e infine, molto più recenti, sul sindacato dei giornalisti. Sempre franche, vispe e acute, come si conviene tra colleghi che, alla fine, per i galloni guadagnati sul campo si sentono anche un po’ amici.
Non ci siamo persi di vista neppure quando mi sono allontanato da Firenze, tutti e due, finalmente, sulla stessa barricata della professione. Ho seguito qualche tua lezione sugli uffici stampa, ci siamo confrontati sulla scarsa tutela della nostra disgraziata categoria. Mi sono compiaciuto (sì, lo ammetto) di alcune e pubbliche lusinghiere considerazioni che hai fatto su certi miei interventi, certe mie prese di posizione anche scomode. Insomma, eravamo in sintonia.
Poi, un annetto fa, l’annuncio della tua malattia.
Lo desti tu stesso. Io ti scrissi, incoraggiandoti. Ho seguito la cosa in silenzio, chiedendo informazioni sommesse.
Mesi orsono pubblicasti una fotografia, inquietante. Non ebbi il coraggio di domandarti se fosse un atto di guerra o un gesto di resa.
Oggi è venuto il giorno che temevo sarebbe arrivato e speravo non venisse, mentendo a me stesso.
Che altro posso dire? Nulla.
Tengo in mente certi giorni solari dell’89, con la luce violenta del cielo che entrava negli stanzoni di via de’ Servi, i tavoli ingombri di carte (all’epoca c’era solo quella) e, alle due del pomeriggio, lo squillo quotidiano del campanello di casa mia col fattorino che consegnava – preistoria! – la busta coi comunicati stampa della Regione. Carta riciclata grigina, titoli in verde, spesso firmati “Dario Rossi”.