Per i liberi professionisti dell’informazione il congresso Fnsi ha (ri)confermato due cose: che nel sindacato non c’è posto per loro e che il senso della parola freelance ha ormai subito una mutazione semantica irreversibile. Urgono sinonimi e alternative.

Una volta Bonatti mi raccontò di quando, in Argentina, incrociò un arrampicatore solitario con attrezzature del tutto inadeguate alla proibitiva scalata che si accingeva a compiere. Walter cercò prima di dissuaderlo e poi di aiutarlo, ma lui volle proseguire e ci lasciò le penne.
Come freelance, uscendo dal congresso Fnsi di Chianciano, mi sono sentito senza rete come quello scalatore. Solo che nella circostanza io non volevo restarci secco, mentre il Bonatti di turno, cioè il sindacato, anzichè trattenermi mi spingeva a continuare la folle ascensione, offrendomi come attrezzatura un berrettino e un paio di ciabatte pomposamente ribattezzati “mozione“.
La mozione è un termine in politichese/sindacalese stretto che manda in sollucchero i sindacalisti, procurando loro languori e talvolta orgasmi. Per metterne a punto qualche paginetta investono giornate di trattative interminabili, con indefesso lavoro di bilancino.
Parlo, nello specifico, della mozione sul lavoro autonomo (la trovate qui) partorita venerdì dal leviatano dopo notti di inciuci. Che servivano non a limare in meglio il documento, ma solo a adeguarlo ai compromessi richiesti dai più alti (alti?) interessi politici in gioco: l’elezione del segretario e in cencelliani contentini da distribuire alle “componenti” (le chiamano così e la cosa dice tutto) interne.
Essendomi espresso già altre millanta volte sull’incompatibilità innanzitutto culturale tra Fnsi e libera professione, la farò breve: alla luce di quanto (ri)letto e (ri)sentito al congresso, non esiste alcuna possibilità che il sindacato possa offrire ai giornalisti liberi professionisti veri e propri una qualche tutela sindacale.
Lo sapevamo già, ma assistere in diretta alla sentenza ha un altro, amaro sapore.
Le ragioni sono tre.
1) Sebbene freelance significhi libero professionista ex art 2229 del codice civile, in federalese il freelance è invece una nozione sfuocata che ricomprende una massa di figure (le chiamano “declinazioni“) spesso contrapposte: abusivi e precari, dopolavoristi e cococo, finte partite iva e disoccupati. In una parola tutti quelli che, aspirando all’assunzione, devono pro tempore accontentarsi di un rapporto di lavoro (per l’Fnsi) “atipico“. L’eventualità che un giornalista semplicemente desideri praticare il mestiere da libero professionista non è contemplata nel ventaglio delle possibilità logiche e quindi meritevoli di tutela o incentivo.
2) Quanto sopra è tanto vero che dalla grottesca teoria si tenta di passare alla pratica. Il sindacato, confondendo i termini della questione e facendo leva su perniciosi, inestirpabili retaggi ideologici, finge che la differenza tra libero professionista e dipendente si basi infatti non sulla libera scelta individuale (e perciò contrattuale) circa il come svolgere la professione, ma sull’entità del compenso per il lavoro svolto. Secondo quest’interpretazione (cui sottende l’inconfessata convinzione che l’unico lavoro degno di questo nome sia quello subordinato, essendo quello autonomo un capriccio borghese che al massimo va tollerato nel nome di un simulato amore per la democrazia), lo status di freelance sarebbe un limbo, una quarantena da cui gli aspiranti redattori, cioè tutti senza eccezioni, devono dolorosamente passare prima di accedere all’agognata assunzione. Il massimo rischio, per l’Fnsi, è quindi che lo status di libero professionista diventi “cronico“. Da qui lo sforzo strategico per far sì che il profilo fiscale, previdenziale e reddituale dell’autonomo sia il più vicino possibile, meglio ancora se coincidente, con quello del dipendente. Il risultato tendenziale è perverso: in pratica, per tutelare gli autonomi, li si vorrebbe obbligare a “diventare” dipendenti. Tutti, indifferentemente, perfino quelli che non vogliono. Anzi, peggio: si vorrebbe usare la leva contrattuale e salariale per obbligare gli editori ad assumere i freelance, dando per scontato che questi non aspirino ad altro, ovviamente. Strumento di ciò sarebbe una gabbia reddituale che farebbe costare il lavoro autonomo “quanto” quello dipendente o, secondo alcuni (forse in eccesso di bevute), addirittura “di più” (da qui la necessità economica della controparte di scegliere il lavoro subordinato).
3) In quest’ottica alterata, anche i numeri diventano giochi di prestigio: dicono che oggi il 62% dei giornalisti attivi è “autonomo“. Vero, forse, ma nel senso illustrato sopra di “temporaneamente autonomi” o di “non ancora dipendenti”. I reali liberi professionisti non sono più del 2%. Una percentuale evidentemente considerata non interessante sul piano degli equilibri politici e della gestione del sindacato (sì, lo so che dovrebbe essere il sindacato a servizio dei giornalisti e non viceversa, ma si parla dell’Fnsi…).
Morale: con queste premesse, in Fnsi i freelance puri, cioè tali per libera scelta e a ciò strutturati, non solo sono fatalmente degli emarginati, ma proprio degli estranei.
Quindi la strada è una sola: autorganizzazione.
O del tutto per conto proprio o nell’ambito di organismi già esistenti (Acta?).