23 maggio 1981 – 23 maggio 2011: c’ero allora e ci sono oggi. Fu un concerto epico, non tanto o non solo per la qualità della musica e l’importanza del gruppo, ma perchè fu uno spartiacque. Dopo tante premesse, musicalmente cominciarono lì gli anni ’80 fiorentini. Una stagione fertile.

Devo al post su FB di un amico e collega, Mauro Bonciani del Corriere Fiorentino, il ricordo di questa ricorrenza. Che non avevo dimenticato, ovviamente, ma di cui non rammentavo la data precisa. Ci ha pensato lui a farmi tornare la memoria e gliene sono grato.
I concerto dei Clash al Comunale di Firenze fu un evento storico per la città: non tanto e non solo per la qualità dell’esibizione, che onestamente non fu eccelsa, ma per l’atmosfera che vi si respirava. E perchè segnò la fine di un’epoca e l’apertura di un’altra: da un lato la chiusura della fase di definitivo sdoganamento di Firenze e dell’Italia come sede dei concerti rock, inaugurata con l’esibizione di Patti Smith nel medesimo stadio il 10 settembre di due anni prima, dopo il biennio horribilis 1977-1979, dall’altro l’inaugurazione della grande stagione musicale degli anni ’80 fiorentini, una scena vivace, proteiforme, eccitata ed eccitante, forse non sempre esaltante nei risultati, ma carica di adrenalina e di promesse.
Del concerto dei Clash vidi poco e non ascoltai molto. Passai gran parte del tempo nel backstage a parlare di musica e a cazzeggiare con Ernesto de Pascale (all’epoca mio broadcast mate a Radio Luna), Max Stefani, direttore del Mucchio Selvaggio (lo era ancora fino a qualche settimana fa, singolare caso di longevità professionale) e il suo braccio destro (nonchè allora penna di punta in materia di punk e new wave) Federico Guglielmi.
Si respirava un’atmosfera strana, quella sera. Folla delle grandi occasioni in curva Ferrovia (10mila, 13mila?), grandi fermenti nel retropalco. Progetti, idee. Cose che oggi forse farebbero sorridere: si teorizzavano riviste, si ipotizzava la fondazione di nuove etichette discografiche, si vagheggiavano quelle che, in ambito politico, De Mita avrebbe definito “ampie intese” a proposito di radio, di comunicazione, di critica rock. Sembrava che uno step decisivo fosse stato fatto e che adesso ne andasse progettato un altro, più lungo, impegnativo, decisivo.
Non mi metto qui a discettare di cosa di tutto quello che pareva allora si sia verificato, nè di che direzione abbia preso. Certamente è cambiato parecchio, lascio giudicare a voi se in meglio o meno. Qualcuno è mancato, il vinile è scomparso ma ora sembra tornare, la musica si scarica e si trasporta ovunque. Chi c’era si sente un reduce? Personalmente, no. Anche se ci sono parecchie differenze al cospetto dei quali mi sento a disagio.
L’importante, credo, è non cadere nell’oleografia, nel nostalgismo, della sindrome da “anni formidabili“. Occorre giudicare con pacatezza ripensando a quella stagione. Che fu bella, per chi c’era. Per chi la sente raccontare, non so.