L’1/10 scorso a Faenza c’è stato il II Forum del Giornalismo Musicale. L’idea: creare un’associazione tra i professionisti del settore. Ma tra “comunicatori”, “rilanciatori di notizie” e “animatori di social”, il giornalismo dov’è? E la musica?
Lo ammetto: ci ho messo più di un mese a scrivere questo post. Lima qui, lima là, smussa i toni qui, smussa i toni là. Tutto perchè il 1 ottobre scorso, in apertura del II Forum del Giornalismo Musicale di Faenza, a margine del MEI, ebbi alcuni attimi di autentico smarrimento: l’incipit era stato scioccante. E, per un momento, nemmeno fossi Chatwin, mi sono chiesto: ma io che ci faccio qui?
In pochi minuti mi ero sentito dire (da Luca Dondoni, RTL) “noi comunicatori“, poi “noi che facciamo questo mestiere (di comunicatori)” e infine “comunicare la musica“. In pratica, declinato in questi termini, il mio lavoro di giornalista consisterebbe, o dovrebbe consistere, nel fare da volano e da attiratore di click su contenuti sponsorizzati o precotti.
Manca poco mi viene un accidente.
Poi le cose sono un po’ migliorate, ma non troppo.
Scopro ad esempio che (secondo Federico Galassi) il lavoro del critico musicale e del giornalista che recensisce dischi (o libri, o qualsiasi altra cosa in verità) sarebbe sintomo di appartenenza al novero di chi pratica metodi “novecenteschi“. Il che, per carità, nel mio caso è almeno sotto il profilo anagrafico innegabile. Il punto implicito di questa vulgata è però che i “duemilisti” (voi come li chiamereste?) non solo si autogiudicano migliori o più evoluti, ma si contrappongono agli altri in quanto rilanciatori di notizie e cultori di “brand“. Proprio e altrui.
Mi spiego: secondo Galassi, nell’epoca della dittatura di FB e degli smartphone, al centro non ci sarebbe più la musica, bensì il musicista (cosa che a mio parere è comunque già molto opinabile), il quale musicista vive però non suonando o componendo bensì facendo “altro”, ossia trasformandosi in “personaggio” e diventando egli stesso un brand attraverso cui può “vendere tutto” (perfino la musica, incidentalmente). Intendiamoci: forse questo già succede davvero. Anzi, se qualcuno lo dice è perchè certamente accade. Che lo si debba tuttavia dare per scontato e addirittura per giusto o perfino come “meglio“, direi proprio di no. Sono seguite altre affermazioni azzardate, tipo “le recensioni non servono più a nulla“, a meno che non siano “brevissime” e quindi possano a loro volta essere “facilmente comunicate“.
Al cospetto di ciò, essendosi colmata la misura, ho pensato: fermate il giradischi, voglio scendere.
E rimuginavo: a parte che una recensione può essere efficacissima anche se è di due righe (la sintesi è notoriamente più difficile dello sproloquio), ma che c’entra “comunicarla”? Un articolo è un articolo, corto o breve, interagito o meno. Sì, è fatto per e deve essere letto, ma deve restare un articolo, sennò che informazione giornalistica è?
Meno male che poi ho scoperto di non essere solo.
Finalmente, infatti, qualcuno (Vincenzo Martorella) ha preso il microfono e si è chiesto: ma in tutti questi discorsi, la musica dov’è? E perché la recensione dovrebbe essere diventata inutile? Perché sarebbe diventata superflua l’esistenza di chi è in grado di dare un parere professionale sulla musica (come su qualunque altra cosa, che è poi il mestiere del critico)? Perché il giornalista dovrebbe diventare un volano di comunicazioni commerciali e un rilanciatore di notizie? Perché la capacità di ascoltare e di giudicare professionalmente, frutto di conoscenze stratificate e di capacità di letture trasversali dell’opera, dev’essere svilita come un rottame quando è invece l’essenza, il combustibile della critica musicale?
Allora mi sono ripreso un po’ e ho smesso di guardarmi attorno.
Sono giunte altre testimonianze da parte di chi (Federico Guglielmi), con qualche decennio di esperienza alle spalle, ha tracciato ciò che io già sapevo, ma molti forse no. E cioè che il giornalismo musicale (e non) e l’informazione in generale sono stati messi ai margini da un sistema in cui il turbomarketing digitale ha rotto l’equilibrio tra musica suonata, musica venduta, musica comprata, musica ascoltata e musica recensita. L’abbattimento artificioso dei diaframmi tra critico e musicista, tra critico e appassionato, tra appassionato e musicista ha creato una marmellata indistinta in cui tutti credono di essere capaci di fare tutto e confondono i ruoli e le competenze.
Le conclusioni sono state sconfortanti.
Tornare indietro è difficile. La liquidità non solo dei suoni, ma delle parole alimenta la confusione e abbassa la soglia della consapevolezza. Il metro quantitativo (una volta era “io ho più dischi di te“, ora è “io sono più fan di te” o “ho più like di te“) è diventato soverchiante rispetto a quello qualitativo (“io ho strumenti e nozioni più numerosi, raffinati e profondi dei tuoi per giudicare criticamente un’opera d’arte“). Sparisce dagli orizzonti, cosa preoccupantissima, anche la cronaca musicale, cioè la funzione di raccontare professionalmente i fatti della musica e attorno alla musica, e la si trasforma in una leva di propaganda surrettizia. Di “rilancio”, appunto, di notizie precotte.
Con queste premesse, l’idea di un’associazione tra giornalisti musicali resta affascinante, ma pone a mio parere la necessità di dolorose scelte preventive e l’individuazione di soglie drastiche su chi possa essere ammesso, cosa che dipende in gran parte anche dalle finalità che l’associazione si può dare.
Il tutto al netto della proverbiale litigiosità della categoria ricordata da qualcuno.
Se ne riparlerà, credo, alla prossima sessione romana del Forum, in programma a dicembre a Roma.