E’ uscito postumo (with a little help from his friends) il secondo album di Ernesto De Pascale (1958-2011), figura eclettica e controversa della scena musicale italiana. Un disco-tributo che non è un tributo. Ma neppure un testamento. Forse it’s only rock’n’roll.
Soundtrack: “Subway to the West Country” (Ernesto De Pascale)
Sette tracce per piano e voce che, grazie a un lavoro di gruppo, di interpretazione e di cesello, diventano sette canzoni brillanti di luce propria. Dense e iridescenti. E vanno a riunirsi in un disco strano, al tempo stesso composito e coeso, percorso dal medesimo spirito ma anche popolato (volutamente, immagino) da molte anime.
E’ questo “Seven songs while the city is sleeping”, il secondo album di Ernesto De Pascale (1958-2011), uscito postumo a due anni dalla scomparsa del musicista, critico e produttore fiorentino. Lo pubblica “Il popolo del blues” l’etichetta-rivista on line-trasmissione radiofonica che lui stesso aveva creato e che ora viene condotta dai suoi più stretti collaboratori.
Per sgombrare il campo dagli equivoci, chiariamo subito una cosa: è un gran bel disco. Davvero. Bello a prescindere: per la profondità dell’ispirazione, per l’intensità dell’interpretazione, per la qualità dell’esecuzione. E perché è un campionario non solo della personale poetica musicale dell’autore, ma pure della sua eclettica formazione culturale, delle sue molteplici influenze e, non ultimo, del suo carattere bifronte, incline al pendolo tra la teatralità e l’interiorità. C’è dentro un amalgama di suoni e di vissuto che chi lo ha conosciuto non fatica a percepire. E che tuttavia nulla toglie alla levità complessiva dell’opera, al valore oggettivo delle canzoni, allo spessore artistico dell’insieme. Il quale riesce anche a non tradire la sua originale natura di assemblaggio e a non levigare certe imperfezioni tecniche che rendono il tutto molto verace, niente affatto artificioso.
Il suono? Un impasto di influenze difficili da separare ed eppure decifrabilissime, esempio perfetto della depascalitudine: il gospel, il soul, i gruppi vocali, un certo mood da songwriting losangeleno che va da Tom Waits a Judee Sill, unito alla raffinatezza dei compositori dell’East Coast (da Laura Nyro a Donald Fagen) e a rarefatti lirismi british, passando attraverso alcuni arrangiamenti smaccatamente kirbiani e tutti i gradi del pianismo pop.
Ma al termine di tanti ascolti nasce una domanda.
Alla quale non sono capace di rispondere e che forse è destinata – magari l’intenzione era proprio questa – a restare sospesa, aleggiante: criticamente parlando cos’è, in definitiva, questo “Seven songs while the city is sleeping”?
Non è un’antologia di inediti, perché è il frutto di una manciata di canzoni incise per falsariga, in casa, e poi prodotte, arrangiate, in qualche modo ricostruite, quasi reinterpretate da altri.
Non è tuttavia neppure un tributo a De Pascale e alla sua musica, perché il piano è il suo, la voce è la sua, l’imprinting dei pezzi è indubitabilmente il suo e non quello dei musicisti che le hanno rilette e integrate. Tutte figure peraltro così a lui vicine da poter costituire quasi una sorta di suoi alter ego.
Non è neppure un album nel senso compiuto del termine: dell’album non ha la completezza, la sequenzialità, la coesione generale e neppure la lunghezza. E’ solo una raccolta di poche, belle canzoni.
La risposta allora, fatalmente, è che forse il disco è un po’ di tutto quanto sopra, senza esserne nessuna. Un tassello godibile, perfino prezioso, che aggiunge qualcosa di importante, ma non di essenziale, alla conoscenza di un personaggio sfaccettato e di ampie vedute come è stato Ernesto De Pascale. Ed è senza dubbio, anche, un atto di amore e di profondo rispetto tributatogli da chi gli è stato vicino e l’ha conosciuto nella quotidianità, nelle pieghe, negli spigoli.
Un atto sotto certi aspetti dovuto, insomma, ma che ha il pregio di non avere nulla di formale. Anzi: la cura, l’attenzione, la partecipazione emotiva dei tanti che hanno contribuito a fare di quei sette abbozzi sette canzoni compiute traluce limpidamente da ogni solco. E, mi verrebbe da dire, appare sempre determinante per la qualità finale. E’ sostanza, non orpello.
“Seven songs”, alla fine, è un disco che mi piace. Molto. Per quello che è, prima ancora che per quello che rappresenta. Non solo perchè Ernesto (che poi Ernesto non si chiamava) è morto. Ma perchè l’opera ha una artistica ragione d’essere. E sono certo che, per gli stessi motivi, sarebbe piaciuto anche al Depa, se il disco fosse stato di un altro.
Ne è la sintesi perfetta lo stacco finale di “Wish you well“, l’ultima canzone dell’album: novanta secondi di giocoso, polveroso, solenne e arioso strumentale che ti riporta dritto a certe uscite orchestrali del Nick Drake di “Bryter Layter”: non a caso il più etereo, il più composito, il più proteiforme e anche il più eterodiretto dei dischi dell’autore britannico.