E’ ormai al calor bianco la polemica tra l’FNSI, che ha appena approvato la creazione al suo interno di una “commissione lavoro autonomo”, e l’Unione Sindacale Giornalisti Freelance (Usgf), il gruppo di giornalisti della corrente di Senza Bavaglio (e non), che propugna invece la creazione, nell’ambito della Federazione stessa, di un organismo di base destinato a rappresentare sindacalmente la libera professione giornalistica. Ma la sensazione è che si parli senza sapere esattamente di cosa si parla. Con il risultato di non arrivare a nulla. Insomma: chi sono i freelance? E chi non sono?

Botte da orbi e guerra aperta, polemiche e reciproche accuse su una questione, in apparenza, lineare: da un lato l’Usgf, che invoca la creazione della rappresentanza autonoma già deliberata al congresso federale del 2004 (nonchè ribadita in quello del 2007) e mai attuata, dall’altro l’FNSI, che ha appena deliberato al suo interno la costituzione di una commissione lavoro autonomo disinnescando di fatto, così facendo, la “minaccia” autonomista rappresentata proprio dall’Usgf.
Segue inevitabile diatriba.
Se per un verso infatti il sindacato proclama che finalmente “i freelance hanno una rappresentanza sindacale all’interno della Federazione” (vedi ad esempio qui), per un altro i sostenitori dell’organismo di base denunciano (vedi qui): l’iniziativa esclude in sostanza i freelance dalle trattative sindacali con la Fieg, perché “la commissione sarà guidata da contrattualizzati e non da giornalisti freelance eletti direttamente dalla base”.

Ma la linearità della contesa è solo apparente.
Innanzitutto perché si tratta di una questione squisitamente interna all’Fnsi: l’Usgf è un’espressione di Senza Bavaglio, che a sua volta è una corrente della Federazione, ben convinta di restare, sebbene in posizione critica, all’interno della galassia federale. Nessuna reale “fronda”, quindi. Poi perché, se l’Fnsi non rappresenta che una minima parte dei freelance italiani, esattamente allo stesso modo l’Usgf, non rappresenta tutti i (già pochi) freelance iscritti alla federazione stessa.

Il punto nodale però, il cuore di tutto, l’unico interrogativo di fondo dal quale possono svilupparsi una seria discussione sull’argomento e, auspicabilmnente, un ventaglio di praticabili soluzioni al problema è in realtà un altro: chi sono i freelance? Da chi è costituita e in che consiste questa sottocategoria così spesso e istericamente invocata ora dall’uno, ora dall’altro sindacalista?

Sia chiaro: sull’infingardia – e, aggiungo, l’inutilità, l’autoreferenzialità, la supponenza – dell’FNSI nei confronti dei freelance non si discute. Tuttavia:
1) Percentualmente, quanto l’Fnsi rappresenta i freelance italiani? Risposta: il 10% al massimo.
2) Di questo 10%, quanti ne rappresenta l’Usgf? Risposta (esagerando per eccesso): il 25% al massimo. Insomma, la pur giusta battaglia è combattuta e/o condivisa dal 2,5% dei freelance italiani.
3) E allora: perchè il rimanente 97,5% dei freelance italiani non è o non si sente coinvolto in una battaglia tanto vitale?
4) Ma soprattutto: non sarà mica che questo 97,5% non è o non si sente coinvolto perchè NON E’ FREELANCE in senso tecnico?
5) In definitiva: perchè i freelance veri prima non si contano e poi non si separano, anche concettualmente, dalla massa dei colleghi che, magari per semplice ignoranza o ingenuità, si autodefiniscono freelance solo per caduta, per esclusione, per mancanza di altre subcategorie sotto cui raggrupparsi? Parlo dei disoccupati in cerca di lavoro, degli aspiranti assunti, dei precari, degli abusivi, dei dilettanti, degli hobbisti e di tutti quelli che anche una parte di SB e dell’Usgf continua a considerare, per un errore concettuale (o per fare massa?…), freelance.

Intendiamoci: nessuno snobismo professionale questi colleghi. Al contrario: piena solidarietà. Solo che continuare a considerare la libera professione come un grande contenitore, una sorta di “miscellanea” nella quale residualmente relegare tutte le figure di giornalista diverse da quelle, codificate, del “contrattualizzato” e del “praticante” è uno sbaglio che crea solo confusione e reca danno a tutti. Spesso nel calderone finiscono giornalisti con interessi e scopi opposti (il libero professionista per scelta, che volontariamente coltiva una pluralità di rapporti con editori diversi, e il collaboratore esterno che da anni collabora con un’unica testata aspirando esplicitamente ad essere assunto dalla stessa, ad esempio). Allo stesso modo non può chiamarsi freelance (e quindi non va sindacalmente difeso come tale) il precario che aspira a un contratto a tempo indeterminato, o chi, in attesa di assunzione, abbraccia temporaneamente la libera professione.

Ecco, da tempo (come vado inutilmente predicando) sono convinto che prima di ogni altra iniziativa o rivendicazione a difesa dei giornalisti freelance vada fatta chiarezza, e se del caso anche pulizia, all’interno della categoria. Dividere il grado dalla lolla. Stabilire chi è un freelance tecnicamente inteso e quali siano le sue necessità sindacali, senza dover fare compromessi o condividere battaglie con categorie di colleghi parimenti degne e e legittime, ma portatrici di una natura e quindi di esigenze diverse da quella dei giornalisti libero professionisti.

Prima di questo difficile e doloroso passo, ogni tentativo di dare protezione e dignità ai freelance sarà probabilmente inutile. Occorre deporre l’illusione di essere tanti e poi quella, altrettanto perniciosa, che ci sia posto per tutti. Bisogna invece acquisire la consapevolezza che i giornalisti libero professionisti sono quantitativamente pochi, ma che per qualità e quantità producono giornalisticamente molto, quindi hanno bisogno di strumenti sindacali loro propri, non condivisibili con altre categorie.

Non si tratta di egoismo, ma di realismo e di consapevolezza. Altrimenti resteremo i soliti “fantasmi”: lenzuola bianche con un buco per gli occhi, ma nessuna certezza su chi ci sia sotto.