L’associazionismo giornalistico che, a volte anche un po’ corporativamente, ha tanto contribuito a dare un’identità e un’unità alla categoria, vacilla sotto il peso di cambiamenti epocali e irreversibili. E’ forse giunto il momento di “nuove sintesi”? Quali (se ve ne sono) le vie da percorrere, quali le prospettive?

L’avevamo detto: prossimamente su questo blog (magari con il vostro contributo di idee e di opinioni). E le idee e le opinioni non sono mancate.

Nell’arco della mia (ahimè) ultraventennale carriera di giornalista mi sono trovato spesso a navigare, talvolta perfino da nocchiero, tra le procelle dell’associazionismo di una categoria per definizione contorta e litigiosa come quella della stampa. E sovente ci ho picchiato il muso, tra interessi di parte, doppi giochi e fini inconfessabili, personalismi, furberie degli uni, dabbenaggine degli altri, carrozzoni più o meno politici e relativi traini di comodo, schieramenti e correnti, opportunismi e panciafichismi vari.
Su questi temi – fnsi, assostampa, gruppi di specializzazione, associazioni spontanee, gruppi di variegata natura e nome – fino a un annetto fa ci si accapigliava. Abbondavano le rivalità, i rigurgiti di rancore personale, l’assalto a poltrone, poltroncine, sedie, strapuntini e sgabelli dei più microscopici sodalizi e dei relativi, presunti vantaggi (potere, visibilità, incarichi di lavoro, qualche miserrimo scrocco?Boh…).
Poi, spazzate via dalla crisi che ha messo a nudo la fragilità del sistema e il vuoto pneumatico che stava dietro a certe “formazioni sociali giornalistiche” (mi sia consentito meleggiare un po’, mutuando certe espressioni da sociologo), tutte quelle quisquilie da cortile sono di colpo scomparse. O almeno hanno cessato di essere importanti e di togliere il sonno ai più.

Facciamo qualche esempio. Per due congressi consecutivi l’Fnsi proclama la legittimità degli interessi dei freelance e il suo diritto/dovere di occuparsene, ma poi ha firmato un contratto in cui il lavoro autonomo non è nemmeno menzionato. Giusta rivolta dei diretti interessati, malumori di intere associazioni regionali, salvo scoprire che al leviatano unico del sindacalismo giornalistico nazionale sono iscritti appena il 10% dei (sedicenti) freelance italiani e che a fargli la fronda è l’Usfg (Unione Italiana Giornalisti Freelance), che fa capo a una minoritaria corrente interna della Federazione. In definitiva: avrà questa la forza per fare lo strappo? Vista la posizione, ne dubitiamo. E ammesso che ci riesca, chi e quanti freelance rappresenterà?
Anche il Fasi (Federazione Autonoma della Stampa Italiana), l’organizzazione “alternativa” nata recentemente per opporsi allo strapotere monopolistico dell’Fnsi, propugna per i freelance la creazione di un organismo autonomo. Segno che qualcosa si muove. Il discorso è quindi interessante. Ma non può prescindere (come tutti gli altri in materia) dal passaggio delle forche caudine di un decisivo quesito di fondo: chi sono i freelance? Chi si può legittimamente definire tale? E’ costui solo una particola della “nube”, come qualcuno l’ha definita, del precariato e del non garantito? O ha – cosa indispensabile per dare vita a un’associazione vitale e operativa – una sua intima coerenza, un insieme di connotati omogenei tali da consentire una facile scansione tra giornalista libero professionista e non?

In attesa di una improbabile (improbabile perchè è evidente che non c’è l’interesse a trovarne una) risposta a questo interrogativo, crediamo che tutto resti com’è e storni l’attenzione dalle molte opportunità che il momento di stallo offrirebbe per cambiare tutto e inaugurare una stagione nuova dell’associazionismo sindacale tra giornalisti.
Il quadro non cambia di molto se proviamo a dare un’occhiata al resto. Ci sono i cosiddetti gruppi di specializzazione all’interno dell’Fnsi (con grande sprezzo del ridicolo se n’è appena creato uno per i giornalisti di nazionalità straniera, cosa diversa dalla stampa estera ndr, operanti in Italia: in che consisterebbe la loro specializzazione? Riboh…) e la galassia delle associazioni autonome. Nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta calderoni autoreferenziali, circoli culturali, enti procacciatori di viaggi, vantaggi, benefici, sconti, tesserini vari.
Per carità, nessun moralismo. Io stesso ho fatto parte per anni di alcuni di questi organismi, che una qualche funzione, almeno di tipo “sociale”, la assolvono. Talvolta bene, molto spesso male. Ma a parte questo, rimangono sostanzialmente inutili. Lo erano quasi del tutto prima, lo sono diventati integralmente adesso, che la crisi generale ha fatto strame del 90% dei loro associati, trovatisi di fatto espulsi dal sistema dell’informazione e rimasti solo con le metaforiche mutande rappresentate dal possesso del “tesserino” professionale”.
Cito, per una migliore conoscenza diretta, il settore della stampa di viaggio e turistica, che nel volgere di un biennio ha vissuto un autentico capovolgimento, un rimescolamento, un terremoto capace di indurre frenetici cambi di casacca, transumanze, colpi di scena vari risultati alla fine ridicoli di fronte alla letterale dissoluzione dell’editoria di settore e alla nessuna prospettiva di questa pur gloriosa branca del giornalismo.
Le cose non sono molto diverse nella stampa agricola, nella stampa economica, nella stampa sportiva, nell’unione cronisti, nella stampa motoristica, nella stampa di moda e in quella medica.

Non sarà allora il caso, come suggerivo nel preambolo, di pensare a “nuove sintesi”? Non sarà in caso di prendere atto, se non del fallimento, del tramonto irreversibile di una certa era della professione e della necessità di riformulare anche i termini dell’associazionismo di settore? Hanno un senso, nei giorni in cui non solo scompaiono i giornalisti ma perfino i giornali, tenere insieme carri di Tespi il cui (teorico, perchè di sostanziale ne hanno poco) peso è basato unicamente sul massimo numero possibile di iscritti (la cosiddetta sindrome di cani e porci) oppure su una presuntissima e autoreferenzialissima “esclusività”, malcelato sinonimo di “complesso di superiorità” molto raramente avallato dai fatti?
Me lo chiedo, e ve lo chiedo, perchè il re è nudo. Scomparsa la differenza tra professionisti e pubblicisti, tra freelance e contrattualizzati (che sono sempre meno e scompariranno presto, purtroppo per loro, con il loro carico di insostenibili privilegi), tra giornalisti “scriventi” e giornalisti di uffici stampa, non è il caso di raccogliere i cocci e di dare vita a nuove formazioni trasversali, destinate da un lato a migliorare la qualità del lavoro di chi ne ha ancora uno (solidarietà, formazione, deontologia) e, al tempo stesso, di elaborare modelli per il recupero al lavoro, almeno di parzialmente, di quelli che, oggi come oggi, sono giornalisti di nome ma non di fatto, soci impalpabili di associazioni divenute pletoriche e inutili, oppure cani sciolti disperati nella loro pur fiera solitudine?
Naturalmente qualche idea ce l’avrei, ma non è il caso di esporla qui, da una tribuna che è e vuole essere il punto per il lancio del proverbiale sasso nello stagno. Giusto qualche provocazione: la “liofilizzazione” di alcune sigle, la riunificazione (post indispensabile ripulisti) di altre, la creazione di federazioni tra associazioni diverse con lo scopo di fare fronte comune verso la controparte editoriale.
Così, tanto per dire.
Come sempre, commenti, critiche e puntualizzazioni sono graditi. Anzi, necessari.