Fedeli, anzi, “al pari della terra”. Così li ha definiti, citando Luzzatti, il presidente dell’Abi Antonio Patuelli nella prolusione al 261° anno accademico dei Georgofili dedicata al rapporto tra banche e agricoltura. Che oggi, però…
Mi rendo ben conto che un tema come la storia del rapporto tra credito e agricoltura sia o possa sembrare materia di esclusivo interesse di specialisti o addetti ai lavori. Ma devo smentire me stesso: la prolusione (per il testo integrale, qui) del presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, in occasione dell’inaugurazione del 261° anno dell’Accademia dei Georgofili, dedicata appunto all’argomento, è stato invece un viaggio affascinante.
Un viaggio che ha ridisegnato la storia non solo rurale, ma sociale, degli ultimi centocinquant’anni d’Italia mostrandola da una prospettiva inedita: quella del fatale interfaccia tra capitale e mondo agricolo nell’arco delle tante fasi della vita di quest’ultimo, da un passato di nerbo socioeconomico del paese a Cenerentola, per sua (o altrui?) fortuna sempre garantita dal valore fondiario.
Ciò che, ascoltando Patuelli, avrebbe stupito un comune agricoltore dei tempi nostri è apprendere dell’attenzione “strutturale” riservata nei tempi passati a un settore ritenuto tanto strategico da meritare un sistema creditizio dedicato e una nozione propria, puntualmente adattata nei decenni alle mutate condizioni e definizioni del comparto medesimo. Da quando, cioè, secondo il modello ottocentesco incarnato da grandi agricoltori-statisti come Minghetti, Ricasoli e Cavour, la proprietà agraria era “parte integrante delle persone“, all’epoca odierna, in cui l’azienda agricola è vista come soggetto autonomo, con una propria cultura d’impresa e sue strutture di gestione.
Eppure, secondo Patuelli, ancora non abbastanza: “Vi sono carenze informative sui dati contabili, dovute in molti casi a una sovrapposizione e confusione tra patrimonio personale e aziendale“.
Affermazione che dal punto di vista tecnico ed economico non fa una piega, ma che mi pare confliggere con il pertinace stato d’animo, direi perfino con una dimensione esistenziale che, tendenzialmente, separa la classe degli agricoltori, o di gran parte di essi, da quella degli imprenditori. Ovvero l’attaccamento, viscerale e un po’ romantico, alla propria terra come a qualcosa di niente affatto fungibile con “altra” terra, anche se magari di qualità migliore o di valore superiore.
Un limite culturale certamente grave, visto da una certa prospettiva. Un freno alla dinamicità, allo sviluppo, agli scambi, al mercato.
Un’ancora di salvezza, però, se visto da un’altra prospettiva (ad esempio, la mia).
Perchè proprio da tale fedeltà derivano anche il coraggio e la tenacia che da sempre contraddistinguono chi, spesso contro ogni logica economica, continua a dedicarsi alla triste agricoltura dei nostri tempi. Rendendolo transitivamente fedele, oltre che al proprio podere, anche alla propria banca.
Esattamente come, nel lontano 1909, lo definiva l’economista Luigi Luzzatti.
Un elemento su cui forse l’algido sistema bancario, tutto preso ad assecondare i dogmi dei vari Basilea, potrebbe e anzi dovrebbe cominciare a riflettere. E, con esso, il mondo politico.
Anche perchè, perduta la terra, il contadino smette pure di essere fedele alla banca…
Ci aveva pensato del resto, introducendo l’intervento di Patuelli, il presidente dei Georgofili, Franco Scaramuzzi, a lanciare un brusco richiamo alla necessità urgente di una maggiore e consapevole tutela del mondo agricolo da parte del sistema: “Non abbiamo mancato di sottolineare – ha detto – come la nostra agricoltura venga da qualche tempo sottovalutata e trascurata. Forse perchè considerata proprio in misura rapportata al suo attuale PIL […]. Sembra diffondersi anche una deformata opinione secondo la quale l’agricoltura servirebbe ormai solo a mantenere la fauna selvatica e ad assicurare uno svago ai cittadini e ai turisti in cerca di qualcosa che ricordi la natura di un tempo passato“.
Come è ovvio, nessuno dalla compassata platea ha osato commentare.
Ma questo blog serve proprio a fare ciò che la solennità del contesto accademico e del Salone dei Cinquecento non consentiva.
E quindi, se tra i lettori ci fosse qualche agricoltore…