A forza di ricomprendere – per opportunismo, convenienza o malintesi – sotto la voce “informazione” tutto ciò che le somiglia soltanto, si è prodotto l’effetto di soffocare il giornalismo e i giornalisti sotto la pletora di quelli falsi o presunti.

Sembrerà che la prenda da lontano, ma vedrete che il punto arriva subito.
So anche che è brutto autocitarsi, ma così si fa prima.
Settimane fa riferivo le parole del presidente dell’Accademia dei Georgofili, Franco Scaramuzzi, a proposito del progressivo allargamento della nozione di agricoltura. Un allargamento – sintetizzavo – legato al malinteso concetto della multifunzionalità, che da un lato ha dato alle aziende agricole sempre più “libertà di svolgere attività specifiche di altri settori, dal commercio al turismo“, e dall’altro, proprio grazie a ciò, ha innescato nelle campagne un’impropria “agrarizzazione” di tutte le attività […]. In questo contesto di confusione di funzioni e di scopi, l’ambiente rurale – aggiungevo – è destinato ad essere relegato al ruolo di semplice testimonial, di scusa per giustificare lo sconfinamento.
Traduzione per i non addetti: facendo passare per agricole attività diverse, ma e in quanto svolte da agricoltori, si è trasformato in “agricoltura” attività come la ristorazione, la manutenzione stradale e la produzione di energia elettrica.
Sembra un progresso, ma solo apparenza: se il mio mestiere mi dà davvero da campare non dovrei aver bisogno di farne altri camuffati da mio per sopravvivere. Quando accade, vuol dire che il mio lavoro è in crisi.
Ecco: la stessa cosa sta succedendo, anzi è già accaduta, col giornalismo.
E quindi con l’informazione.
Prima esistevano due sponde separate da un oceano. Di qua l’informazione, di là la pubblicità. Un solco scavato e sancito tanto dalla sensibilità comune, quanto dalle norme deontologiche della professione, con l’esplicito divieto della commistione tra le due categorie.
E’ ovvio che il divieto interveniva proprio perchè, spesso, le commistioni c’erano.
Ma esso serviva appunto per chiarire che, nel momento in cui esse avvenivano, erano qualcosa di eticamente, deontologicamente e anche legalmente illecito.
Poi piano piano le cose si sono ammorbidite, la tolleranza (spesso pelosa o collusa o venata d’ipocrisia) si è allargata, l’istinto mercantile si è prima insinuato nelle redazioni e poi è stato metabolizzato come una sorta di male necessario, sono arrivate le giustificazioni (tiene famiglia, anche lui dovrà pur lavorare, ma che sarà mai) e infine l’accettazione più o meno silenziosa.
Si è in pratica sdoganata la marchetta.
Pareva la fine e invece era solo l’inizio.
Perchè, rotti argini e paletti, todos caballeros e toda informaciòn.
Scatto una foto ed è informaciòn. Posto qualcosa sui social ed è informaciòn. Riprendo un avvenimento senza nemmeno capire nulla ed è  informaciòn. Scrivo due righe su quello che faccio in vacanza ed è informaciòn. Apro un blog ed è informaciòn. Scrivo slogan o faccio pubblicità o curo le pr per un’azienda ed è informaciòn. Presenzio da testimonial a qualche evento e faccio informaciòn.
Conseguentemente, chi fa una delle cose di cui sopra diventa automaticamente un operatore dell’informazione ed è in qualche modo autorizzato (poichè nessuno glielo contesta) ad autodefinirsi tale. Detto in volgare: giornalista. Vado a strillare ai varietà in tv e sono un giornalista. Scrivo veline e sono un giornalista. Curo il sito dei tifosi e mi chiamano giornalista. Organizzo pappatorie o viaggi o intrattenimenti e sono giornalista.
L’infotainment, cioè la miscela tra giornalismo e spettacolo (con forte prevalenza del secondo)? Eh, roba preistorica.
Ormai siamo alla gestione dei pannelli solari spacciata per agricoltura: quindi diventa “giornalismo“, o percepito come tale dalla gente, il che è quasi la stessa cosa, qualsiasi attività svolta da un giornalista. Stare tra i fornelli non è cucinare, diventa giornalismo. Disegnare vestiti non è fare il sarto, ma giornalismo. Tenere un blog sulla cura del catarro bronchiale è giornalismo.
Ovvio che chi ha interesse a che tutto ciò proliferi – generalmente chi vende qualcosa – ci sguazza.
Un enorme, disinvolto infingimento in cui ormai tutti fanno tutto e tutti sono tutto: musicisti e scrittori che si autorecensiscono, produttori che testano a pubblico beneficio i loro stessi prodotti, addetti stampa che pubblicano i loro comunicati come fossero articoli e giornali che accettano di far scrivere articoli a gente che invece scrive comunicati stampa per i propri clienti, giornalisti che presenziano a party e feste come testimonial (magari a pagamento) e non come cronisti, gente che viaggia sponsorizzata e poi dà consigli ai viaggiatori su dove andare in vacanza, altri che vestono griffati e poi suggeriscono cosa indossare. Siti camuffati da giornali e giornali camuffati da siti, ma comunque pieni di marchette, omaggi compiacenti, benevolenze varie.
Todos caballeros, todos periodistas, toda informaciòn.
Una volta si sarebbe detto “è il giornalismo, bellezza“. Ma oggi?
Poi ci sarebbe l’altro doloroso capitolo del dilagante “modo giornalistico” di fare le cose, lasciandole fare però, e pure giudicare, a chi giornalista non è (dal “saggio giornalistico” dell’esame di maturità in giù).
Meglio però lasciar perdere e occuparsene un’altra volta, anche il fegato ha i suoi diritti.