Spazzata via dall’elettronica, rientra dalla finestra della pratica per aiutarci a gestire l’orgia di password, username, pin, puk, parole chiave e codici di sicurezza che condizionano, rendendola ansiogena, la nostra vita quotidiana.

C’era una volta la rubrica.
Di solito stava in fondo alla mitica agendina. Quella piccola, tascabile anzi, che col trascorrere dei mesi acquisiva di solito la medesima curvatura del portafogli: gluteomorfica.
Normalmente foderata in pelle, l’agendina con rubrica inclusa aveva gli spigoli stondati e, nelle versioni più evolute, un microlapis e un talloncino staccabile in ogni pagina, in modo da consentirti di aprirla arrivando subito alla data giusta, a colpo sicuro.
C’erano anche le agende da tavolo, che erano solo più grandi, a volte ad anelli, ma in sostanza identiche, pure loro con la rubrica in fondo.
Era proprio quest’ultima, anzi, la parte più preziosa. Tanto che, finchè non inventarono quelle asportabili, pronte ad essere sfilate dalla vecchia e infilate nella tasca dell’agenda nuova, a ogni San Silvestro costringevano il malcapitato a ricopiare pazientemente tutti i nomi e i numeri telefonici dall’una all’altra.
Pareva una fatica immane, ma in realtà era una bazzecola: al massimo un numero di casa e uno di ufficio per ogni conoscente. Per il resto c’era l’elenco telefonico.
L’avvento delle rubriche elettroniche apparve come una rivoluzione copernicana e mandò in soffitta la prima generazione delle agendine cartacee, riducendole al rango di (comunque indispensabili) back up di cellulosa.
Arrivarono poi anche i telefonini con la rubrica interna (e i problemi di salvataggio dei dati della stessa), ma dei vecchi libriccini di carta ormai non si parlava più.
Outlook, internet, social e le altre diavolerie informatiche fecero il resto, facendo scomparire per sempre dalle tasche degli italiani non solo ogni parvenza cartacea, con il suo tenero apparato di cancellature, correzioni e aggiunte via via che nella scheda di ognuno bisognava annotare fax, cellulare, casa al mare o in montagna, ma anche il suo succedaneo tecnologico.
Un colpo del destino cinico e baro era tuttavia dietro l‘angolo. Così come i corsi e ricorsi della storia.
E così, in altra forma, nella vita di ognuno si riaffacciò piano piano una nuova congerie di numeri e di sigle da ricordare, indispensabili proprio per accedere ai dati che una volta stavano scritti sulla fida rubrica e agli apparecchi che l’avevano resa obsoleta: il pin del telefonino, poi il puk, poi il pin del bancomat, la data indimenticabile della carta di credito, il codice delle miglia aeree. Il tutto moltiplicato per il numero di cellulari, bancomat e carte posseduti.
Quindi venne il momento di internet, degli account, delle password di accesso a siti, pannelli, servizi. Cosa già parecchio noiosa, ma ancora abbastanza semplice finchè si usavano termini facili: il nome del cane, la data di nascita della moglie o il cognome della mamma da nubile.
Poi, però, qualcuno ci spiegò che non solo c’erano i ladri di password, ma che era facilissimo entrare nei nostri account con certi programmi creati ad hoc e infallibili nel violare le combinazioni più ovvie.
E dunque via a prescrivere (loro) e a inventarsi (noi) i codici alfanumerici più complessi, sempre più lunghi, diversi e impossibili da memorizzare, con non meno di otto caratteri, mescolando maiuscole e minuscoli, numeri e simboli esoterici, da cambiare per sicurezza una volta ogni sei mesi, sempre tanto fantasiosi da costringere a essere trascritti.
Idem, poi, con user e password sempre più numerose, complicate e diversificate, indispensabili in ogni momento della vita: portone, segreteria telefonica, cancello automatico, cellulare, blue tooth, serratura dell’auto, autoradio, posta elettronica, home banking (dispositiva e amministrativa), carte di credito (doppio: pin e codice di sicurezza), cellulare, pc, account del gestore telefonico, account dell’assistenza dell’auto, tessera aci, codice twitter, facebook, password del pannello di controllo del blog, codice di accesso all’Inpgi, codice di accesso al Telepass, account di Trenitalia, ai siti preferiti. Insomma un’alluvione di parole segrete necessarie per entrare praticamente dappertutto, a costo di isolamenti, di blocchi dei sistemi e di conseguenti, interminabili procedure di sblocco, di crisi d’ansia e di inevitabili travasi di bile. Il tutto automatico, inesorabile, stolido e smooth come tecnologia comanda.
Alla fine allora sapete che ho fatto?
Ho preso una vecchia, intonsa microagendina del Papiro, regalino anni ’70 di chissà chi, rimasta sepolta in fondo a un cassetto. Ci ho ricopiato ordinatamente, in bella grafia e a lapis, quindi a prova di correzione, tutte le password. Poi l’ho fotocopiata e ho messo le copie in una scansia della scrivania.
Ora giro tutto contento con una bella rubrichina in tasca, sformata e consumata, preziosa ma pratica e inesauribile, a prova di pirata informatico. Non pesa, se cade non si rompe, non va messa in carica, non si smagnetizza, non va in blocco. La tiro fuori alla bisogna e mi pare di essere tornato ai bei tempi andati.
Salvo, forse, quando mi viene voglia di chiamare un amico. E lei, invece di rammentarmi quel numero composto centinaia di volte senza mai riuscire a mandarlo a mente, al massimo mi ricorda la password di outlook.
E’ la stessa differenza che c’è tra riconoscere l’odore di casa aprendo il portone dopo una lunga assenza o farselo solo raccontare.