Arriva un momento in cui capisci che bisogna rimettere le cose a posto, lì dove devono stare, a dispetto di tutto. E chi se ne frega del resto. Così ho riaperto un vecchio cassetto, ho preso scala, chiodi e martello e Tommy Walker e tornato a casa.
E’ stato un impulso irrestistibile e, insieme, un senso di pentimento incontenibile.
Come avevo potuto relegare in un cassetto dimenticato (con decine di altri, naturalmente) quel vecchio manifesto dai colori un po’ sbiaditi, con le righe bianche delle pieghe e, agli spigoli, i buchi dei chiodi coi quali lo avevo tenuto per anni e anni appeso al muro, indifferente all’anagrafe e al cambio delle generazioni musicali, al mutato uso della stanza e alla tenace patina di polvere che col tempo e l’umidità ci si era appiccicata sopra?
Come avevo potuto solo concepire un simile oltraggio a quel simbolo silenzioso di troppe cose, compagno fedelissimo e iconico, testimone dei miliardi di dischi che per centinaia di mesi hanno girato a 33 e 1/3 sotto il suo naso?
Con quei riccioli e gli occhi celesti, ma lontani irrimediabilmente anni luce dalla bellezza maledetta e tenebrosa di un Plant, il torso nudo e i jeans e il giubbotto di camoscio con le frange e il pugno stretto attorno a un microfono proteso verso il cielo, preso a mimare una marcia immaginaria, mentre dietro, sullo sfondo, i tre compari reduci dalla minzione sul monolite pestano su corde e tamburi?
Ti chiedo scusa, Roger. Davvero, come ho potuto?
Ecco, ora prendo una scala e, sfidando lo stesso equilibrio precario con cui ti issai lassù 45 anni fa, armato di martello e bullette ti rimetto al posto che ti spetta. Perchè le bandiere non si ammainano, a costo di apparire ridicoli. Bisogna riconoscere gli sbagli e non vergognarsi di nulla.
“But my dreams
They aren’t as empty
As my conscience seems to be“.
E tutto per colpa di questa canzone che ho risentito per caso dopo tanto tempo.