Mi si dice che esistono già autorevoli statistiche. Lo so bene. Ma non mi interessano le cifre, bensì la gente. Che abbia volontà e interesse reale a dichiararsi libero professionista. Perchè tra “dire di” ed esserlo davvero, ce ne corre.

La mia idea di bandire un censimento dei giornalisti freelance veramente attivi in Italia (e veramente freelance, cosa non da poco) sta facendo discutere.
Bene.
Non torno sulle cose di tipo teorico e metodologico già spiegate (per le quali si può vedere qui oppure tra i commenti ai post precedenti), mentre mi preme insistere brevemente su un punto.
Molti mi hanno fatto osservare che esistono già molte statistiche sulla libera professione giornalistica nel nostro paese, ultima delle quali – particolarmente approfondita, autorevole e seria – quella degli amici del Lsdi (qui), affidabile istituzione che indaga da anni sulle dinamiche della nostra professione.
Secondo il loro recente rapporto, detto “La fabbrica dei giornalisti” (quella che io chiamo giornalistifico), alla fine del 2011 nel nostro paese i giornalisti “visibili” ed effettivi (cioè con una posizione contributiva all’Inpgi attiva) erano 46.243, di cui 19.639 nel campo del lavoro subordinato e 26.524 fra autonomi e parasubordinati (Co.co.co). Tra i secondi, la metà guadagnerebbe meno di 5mila euro. Mentre la media retributiva dei ‘’liberi professionisti’’ (secondo un’accezione estensiva del Ldsi che peraltro non coincide con la mia) si attesta a 12.586 euro.
Ecco, fermiamoci qui.
Io faccio il freelance da 25 anni e vi posso assicurare che nel mondo di oggi, se è già difficile vivere con 12.500 euro l’anno, NESSUNO (giornalista, infermiere, avvocato, insegnante, calciatore o ballerina) può campare con soli 5mila euro.
Ne consegue che i 14mila colleghi che percepiscono dall’esercizio della professione quella cifra e che, sia chiaro, sono certamente persone rispettabili e giornalisti bravissimi, NON sono nè certamente possono essere definite certamente dei freelance, in quanto con ogni evidenza vivono, per loro fortuna, anche con altri redditi.
CAPIAMOCI: qui non si fanno serie A, B o C. Nè si pensa che il freelance sia più “ganzo” di un cococo, di un abusivo o di un precario (che sono solo forme diverse di svolgere la medesima professione). Si afferma solo un fatto lapalissiano: siccome nessuno campa d’aria, chi guadagna 5mila euro l’anno vuol dire che ha anche altre e prevalenti fonti di guadagno.
Ma torniamo al punto.
Io e tanti (purtroppo non più tantissimi: certamente assai meno dei 12mila che si ricaverebbero per differenza dai dati esposti sopra) colleghi invece abbiamo solo il reddito professionale e viviamo, sebbene a fatica, esclusivamente dei frutti nel nostro lavoro giornalistico. Il quale, per forza di logica oltre che di cose, è necessariamente superiore ai 5mila euro. E forse anche ai 10mila, visto il costo della vita.
Ma, volutamente senza porre soglie fisse, diciamo che esiste una certa fascia di giornalisti che, magari arrabattandosi e adottando stili di vita molto sobri, vive del proprio autonomo lavoro. E, quindi, ha anche il massimo interesse a che esso venga tutelato, protetto, sopravviva, resista e possibilmente si consolidi.
Ecco: sono questi quelli che mi interessano. Quelli che sono giornalisti a tutto tondo (odg e inpgi), liberi professionisti a tutto tondo (partita iva), guadagnano una parte prevalente del proprio reddito svolgendo attività giornalistica in rapporto con una pluralità di committenti. E lo dicono pubblicamente, facendosi censire.
Insomma si espongono, lo proclamano, lo sottoscrivono e non si limitano a rispondere anonimamente ai sondaggi.
C’è la stessa differenza che c’è tra sventolare la scheda elettorale con la croce sopra al simbolo del partito e fare dichiarazioni agli exit poll.
Qualcuno mi dice (e teme) che il rischio è di scoprirsi in quattro gatti.
Può darsi. Anzi, probabile. E allora?
Mi dovrei vergognare di appartenere a una categoria di reduci ridotta al lumicino? No davvero!
Ed ha senso fingere di essere tanti o girare intorno al problema, mentre la nostra professione e quindi il nostro lavoro stanno letteralmente morendo, lasciandoci in brache di tela? Certamente no.
Preferisco scoprire di essere in trecento ma conoscendosi tutti uno per uno e pesarsi per quello che siamo, piuttosto che dare ad intendere di essere diecimila, ma estranei e senza nulla in comune, tranne una verniciata di sedicenza.
Insomma, il censimento serve a questo: contarsi e (ri)conoscersi. Per prendere coscienza della realtà e poi, se del caso, capire come regolarsi per il futuro. Senza aver paura della verità che andremo a scoprire.
Io vado avanti per la mia strada.
Chi mi condivide, mi segua. A partire da lunedì.