Con il colpevole abbaglio che già costò la testa a Maria Antonietta, l’establishment agricolo italiano non comprende le ragioni del malessere profondo delle nostre campagne, relegandolo tra le questioni di gestione del potere. Per questo, sabato a Roma, potrebbe nascere la F.I.A.: Federazione Italiana degli Agricoltori.

E’ solo una sanguigna, primordiale, innocente voglia di podere, ma molti non innocenti osservatori la prendono per voglia di potere. Sintomo che non hanno capito nulla. O che fanno finta.
E il rischio, ormai quasi divenuto realtà, che l’atteggiamento da Maria Antonietta (“Il popolo non ha pane? Che mangi brioches“) con cui la politica e i sindacati agricoli affrontano il malcontento dei comitati spontanei sorti come funghi in tutta Italia si trasformi nella nascita di qualcosa di grosso e di irreversibile, cresce.
Nelle scorse settimane ad Asciano, il comune della campagna senese nella quale vivo, è accaduta infatti una cosa importante, l’ennesima, sebbene avvolta in un’aura giocosa da sagra paesana, tra trattori e forme di pecorino: sono affluiti lì da tutta Italia i rappresentanti di parecchi dei comitati agricoli spontanei nati (vedi ad esempio qui e qui) nel corso degli ultimi anni nella penisola per discutere del proprio futuro.
Messaggio di partenza: siamo stufi di non avere un domani. Messaggio intermedio: fuori dalla politica e dalle organizzazioni, le principali responsabili della mancanza di prospettive. Messaggio finale: autorganizziamoci per incidere nelle scelte che ricadono sulla nostra pelle.
Chi fa parte di questi comitati spontanei? Agricoltori di ogni tipo, ma principalmente aziende diretto coltivatrici di dimensioni medio-grandi, o comunque imprese che praticano agricoltura vera, strutturate, con parco macchine, fatturati, famiglie da mantenere. Gente che rappresenta insomma una buona parte dell’ossatura rurale italiana. Niente grandi fattorie di facciata, insomma, né microproprietà da pochi ettari. Campi, non orti.
Naturalmente non tutti vanno d’accordo con tutti. Nessuno è del tutto indipendente da chiunque. Qualcuno ha le idee chiare e altri meno. Ma sono accomunati da un sentimento allarmante e condiviso: un senso di inquietante precarietà e di un mondo che pian piano si chiude davanti a loro, senza lasciargli alternative.
Non è il caso in questa sede di addentrarsi nelle grandi questioni di politica agricola ed economica sul tappeto, la nuova Pac, le fanfaluche sull’agricoltura multifunzionale, la crisi internazionale, il mercato globale delle derrate agricole, il rapporto tra suolo e energie rinnovabili.
Tutti argomenti serissimi e che toccano molto da vicino gli agricoltori italiani, sia chiaro.
Ma quello che qui mi interessa sottolineare è il fattore sociologico, l’inquietudine profonda, il malessere ormai quasi esistenziale che è alla radice dei sommovimenti prodotti da questi comitati.
Esiste in Italia una minoranza (perché non c’è dubbio che oggi siano una minoranza) finora silenziosa che però costituisce uno strato molto solido ed importante della società: gli agricoltori, coloro che, nell’inconsapevolezza e spesso disinteresse generale, costituiscono l’ultima presenza nelle campagne. La loro importanza non è solo economica, né solo estetica: è un’importanza sociale, di presidio del territorio.
Il fatto che una grossa fetta di costoro dia segni di inquietudine, rinunci alla proverbiale rassegnazione, tenda ad associarsi anziché ad isolarsi, a ribellarsi anziché affidarsi fideisticamente a partiti e organizzazioni di categoria, è un segnale che il paese dovrebbe cogliere. Quando il coniglio si agita e la rondine vola in modo strano, spesso è il preavviso che qualcosa di grosso è in arrivo.
Invece pare che il mondo agricolo ufficiale, quello dei ministeri e dei sindacati, tenda a scambiare tutto questo per un’ennesima mossa sulla scacchiera del potere, una scossa di assestamento nelle interminabili trattative del compromesso. Si pensa di acquietare il malessere con le promesse e le poltrone, le vaste intese, lo scambio gattopardesco di ruoli e bandiere.
Io non so se davvero, come si vocifera, questo weekend a Roma verranno poste le basi per la nascita della F.I.A., la Federazione Italiana degli Agricoltori, la nuova organizzazione che ufficializzerebbe il coordinamento formale tra i comitati spontanei degli agricoltori italiani. Può darsi che tutto finisca in un nulla di fatto, o che la cosa sia ancora troppo in embrione. Ma intanto la riunione ci sarà e il notaio pure.
Qualcuno dirà che si tratta dell’ennesima spaccatura di un mondo agricolo che avrebbe bisogno di unità e, invece, prosegue nel dividersi.
Magari è vero.
Ma per stare insieme occorre unità di intenti e l’unità di intento fondamentale, cioè la tenuta in vita dell’agricoltura italiana, non pare essere realmente condivisa da tutti i soggetti coinvolti.
La sensazione insomma è che la rabbia e l’impazienza di tantissimi agricoltori italiani, a qualunque sigla appartengano e che si riconoscano o meno nei comitati, non sia il sintomo della voglia di reimpadronirsi di un potere che non hanno mai avuto, ma del podere. Il loro. Nel quale si conglobano la vita, i valori, la continuità, la quotidianità, il reddito. Cose semplici che un empireo agricolo forse ormai perduto in altri ed altri universi non afferra.
Occhio, però, il risveglio potrebbe essere brusco.