Può accadere, in buona fede, di confondere i sintomi con le cause di una malattia e quindi di prescrivere medicine sbagliate. Come succede a molti dopo le polemiche di fine anno tra Renzi e il presidente Odg Iacopino sul caso dei giornalisti-schiavi.

Giorni fa via twitter ho ricevuto il link a un interessante commento del blog “Straborghese” (qui) sulla questione dei “giornalisti schiavi” nata dal battibecco di fine anno (qui) tra il premier Matteo Renzi e il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino.
Il titolo dato al post dall’estensore è particolarmente significativo – “Giornalismo, la schiavitù della corporazione” – perchè giustappone in una sola frase quasi tutti gli elementi del dibattito in corso.
Devo aggiungere che l’articolo è ben scritto, ben argomentato e privo di quelle fastidiose faziosità che spesso inquinano le dissertazioni sull’argomento, o semplicemente fungono da paraocchi per semplificare il discorso. Molte osservazioni sono giuste, molte affermazioni ineccepibili.
Tutto muove però da alcune convinzioni legittime quanto (secondo me, si capisce) erronee. E ciò conduce all’interpretazione errata delle circostanze conseguenti. In pratica, l’errore sui sintomi porta l’autore a diagnosticare una malattia sbagliata e pertanto a prescrivere cure altrettanto sbagliate.
La principale di quelle convinzioni, cui tutte le altre susseguono, è che la categoria sia titolare di “privilegi” e che l’Ordine sia il gendarme messo lì a fare loro da guardia. La seconda è che la categoria sia formidabilmente coesa a difesa di essi, grazie anche all’appoggio di un sindacato “durissimo (mah…) e di editori collusi, tutti uniti nel nome di un comune interesse. La terza è che vittima predestinata e strumentale di ciò siano i “precari“, ovvero “legioni di giovani volenterosi e di belle speranze, disposti anche a lavorare gratis o quasi pur di vedere la loro firma su questo o quel grande giornale“. Infatti, prosegue lo Straborghese, “per molti editori il precariato è una risorsa produttiva importante, per far fronte alle enormi inefficienze interne connesse al mantenimento di uno status quo dettato da interessi corporativi“.
Da questo trittico susseguirebbe il fatto che, da un lato, un’editoria decotta e tenuta in vita dai sussidi sopravviverebbe alla propria inefficienza economica utilizzando “freelance precari” (sic!) da relegare al ruolo di scrivani obbedienti anzichè di giornalisti; dall’altro si consentirebbe alla quota corporativa della categoria (cioè quella dei “garantiti” grazie alle ricche prebende assicurate dal suddetto sindacato “durissimo” e dalla difesa dell’intoccabile OdG) di mantenere vantaggi economici altrimenti insostenibili; mentre da un altro lato ancora, tutto questo sarebbe il tappo che impedisce lo sbocciare di nuove testate indipendenti, capaci di dare lavoro, peggio pagato ma comunque dignitoso, alle “legioni” di cui sopra.
Conclusione: “I precari sottopagati non sono schiavi ma aspiranti professionisti a cui le opportunità di emergere sono negate da barriere corporative, e che purtuttavia ‘resistono’ autofinanziandosi e lavorando per cifre irrisorie. La liberalizzazione del lavoro giornalistico, la possibilità per le aziende di riorganizzarsi internamente e licenziare chi non lavora, l’abolizione dell’ordine, sarebbero un primo passo per avviare un effettivo rinnovamento. Tuttavia, nessuno ha interesse a che ciò davvero accada: meglio rimanere asserviti e lamentarsi ipocritamente con i propri signori dello schiavismo di padroni inesistenti“.
Ora, procedendo, per brevità, schematicamente.
Primo, si fatica a capire quali, al di là dei luoghi comuni, siano oggi i “privilegi” dei giornalisti. L’espressione, ricca di implicazioni negative, non è usata casualmente. Ma io i privilegi proprio non li vedo, soprattutto quelli dell’intera categoria. Posso sì vedere l’enorme sperequazione tra le garanzie reddituali e contrattuali degli assunti e quelle dei non assunti, ma esito a definirlo un privilegio e ancora più ad attribuirlo all’insieme della categoria, di cui, come tutti sanno, fanno parte per legge sia i “privilegiati” che i non.
Secondo, e abbastanza paradossale, è che le garanzie di cui sopra non sono affatto il frutto di un pactum sceleris tra OdG, editori e sindacato, ma della cura (stavolta sì, “durissima”) da decenni miopemente dedicata dal sindacato alla sola quota dei “contrattualizzati”, nel totale e colpevole disinteresse verso una quota di “autonomi” della professione talmente montante da essere divenuta da tempo addirittura maggioritaria.
Terzo: l’ossimorofreelance precari” in cui, in modo certamente involontario ma rivelatore, cade l’estensore dell’articolo, la dice lunga su certe convinzioni aprioristiche e su una certa confusione di idee che egli stesso ha sulla galassia di quel lavoro giornalistico che oggi si chiama autonomo e in cui – lo dico per chiarezza – quella dei precari (cioè titolari di contratti a termine) e dei freelance (cioè liberi professionisti multimandatari) sono sottocategorie teoricamente concorrenti e contrapposte.
Quarto, è certamente vero che “l’Ordine dei giornalisti in realtà concorre a generare il precariato italiano“, ma per ragioni opposte a quelle individuate dall’articolista: non cioè “proteggendo uno status quo corporativo in cui editori, sindacati, e gli stessi giornalisti non precari sono solidali nel mantenere i loro privilegi“, bensì, al contrario, alimentando esso stesso il giornalistificio attraverso un avallo incondizionato della congruità dei compensi (necessaria all’iscrizione all’OdG) che costituisce di fatto una liberalizzazione surrettizia della professione.
In definitiva: senza il necessario intervento legislativo l’Ordine non può riformarsi, ma sta comunque autoabolendosi gonfiandosi a dismisura di dilettanti dichiarati o di gente destinata a restare disoccupata in un mercato del lavoro giornalistico non solo saturo, ma in caduta libera; la mancanza di professionalità dei singoli a cui questo sistema dà vita, non con il colluso aiuto ma grazie all’ottusità e al corporativismo autoreferenziale, stavolta sì, di un sindacato unico ma non rappresentativo, genera quelle “legioni di giovani volenterosi” che, accettando (incomprensibilmente) di lavorare gratis, invece di fare un lavoro serio si autocondannano ad essere dopolavoristi a vita; indicare la liberalizzazione della professione e la libertà di licenziamento da parte di aziende editoriali svincolate dal ricatto sindacale come la ricetta per la rinascita del giornalismo italiano e dell’industria dell’informazione mi pare un’intuizione intelligente ma basata su una diagnosi sbagliata.
A questo punto sono molto curioso di leggere e commentare il rapporto Ldsi sulla professione presentato ieri (ma riferito all’anno 2014) a Roma.