Il giornalismo di viaggio ha ancora un futuro, o almeno un senso? Se lo chiede il numero di “Internazionale” dedicato alle vacanze. La risposta è un po’ omissiva. E la sensazione della grande opportunità mancata rimane.

 

In un lungo editoriale su “Internazionale”, quello di Ferragosto tradizionalmente dedicato a viaggi e vacanze, il collega britannico Tom Chesshyre tenta di spiegare perché, e non da ora, il giornalismo di viaggio è da considerarsi finito, o se esistano ancora delle speranze.

Molti degli argomenti evocati sono arcinoti (ne parlavo già qui) e qualcuno è innegabile. Altri, meno. In sintesi, dice Chesshyre, quello odeporico è un genere di giornalismo che non ha più mercato perché non interessa più a nessuno e, quindi, nessuno lo pubblica. Da questo crollo della domanda deriva la crisi professionale della categoria dei cosiddetti travel writer, passati nell’arco di trent’anni dall’essere figure ammirate e invidiate a sostanziali disoccupati. La ragione del disinteresse è che, continua l’autore, non importa più a nessuno leggere avventurosi reportage scritti in punta di penna da luoghi che oggi chiunque, e con costi relativamente modesti, può visitare in tranquillità di persona grazie a voli low cost o può perfino “vedere” gratis sulle webcam di internet.

Sull’automatica drasticità di questi rapporti di causa-effetto avrei qualcosa da ridire (il fatto che quella causalità sia evidente non impedisce che ce ne siano altre, né che ciò che fa la maggioranza delle persone non possa lasciare alla minoranza lo spazio per dar vita a un proprio “mercato” marginale: e anzi, aggiungo, è strano che non esista). Allo stesso modo avrei da ridire sull’affermazione che “per scrittura di viaggio, s’intendeva lo schiudersi del mondo attraverso gli occhi di uno scribacchino di passaggio”, il quale di norma infarciva il reportage con “elementi romanzeschi e autobiografici”. Non mancano altre affermazioni poco affettuose verso la categoria. Le cito più per sorriderne che per confutarle: gli inviati di viaggio sono dipinti come armati di “giubbini spiegazzati e lisi moleskine”, o figure che, “col pretesto del giornalismo”, sono, fondamentalmente, “turisti con un libro in testa”.

Sorvolo pure sull’immancabile e francamente insopportabile intemerata politicamente corretta, per non dire ideologica, con cui l’articolista, citando vari autori, dà a personaggi come Bruce Chatwin o a Paul Theroux di “occidentali privilegiati” spesso “molto maschi e molto bianchi” impegnati in operazioni di “appropriazione culturale”, visto che si permettono di girare il mondo a fare domande, viaggiando con le “valigie piene di frammenti di un discorso colonialista(addirittura!). Si arriva perfino ad affermare che il semplice prendere un volo internazionale sarebbe un “atto di violenza” perché contribuisce all’emissione di gas serra.

Ma i punti della questione non sono questi.

Il punto è la domanda che alla fine Chesshyre si pone: “che ne sarà dunque della scrittura di viaggio”?

La risposta mi pare un po’ semplicistica. Viene fornita citando il solito Theroux e le parole del giornalista del Times Ben McIntyre. Se le letture e l’irrequietezza – questo il succo – sono ciò che trasforma un uomo in un viaggiatore, nessuna “illusione dell’onniscenza” fornita dalla rete potrà arrestare la spinta a viaggiare e, anzi, sarà la rete stessa, con tutte le sue informazioni contraddittorie, a dare impulso al desiderio di “guardare da vicino, verificare, annusare, assaggiare, sentire e a volte a sopportare le conseguenze di questa curiosità”. Insomma, “ci sono oggi più motivi che mai” per partire, purchè nella consapevolezza di “sentirsi stranieri” nei luoghi in cui andiamo, con “meno introspezione, forse, e solo una bella storia da raccontare con gioia”.

Potrei essere d’accordo con molte di queste affermazioni. La sensazione di parzialità della risposta all’interrogativo di partenza, però, rimane: sono parole rivolte al viaggiatore, più che allo scrittore di viaggi e ancora meno al giornalista.

Chi, se non il giornalista, ha il compito professionale, prima ancora che culturale, di “andare a vedere da vicino, verificare, annusare eccetera”? E per chi dovrebbe fare tutto ciò (altrimenti sarebbe solo un turista, col “libro in testa” o meno) se non per un lettore, per il tramite di un’editoria e perciò di una committenza che, se non vogliamo chiamarlo volgarmente mercato, tiene in piedi l’apparato che genera questo lavoro?

Ecco, mi pare che l’incompletezza del (ben scritto) editoriale di Chesshyre consista in questo: nell’aggirare il tema di quel fattore fondamentale del travel writing che consiste nella professionalità seriale, ossia nell’essenza stessa del giornalismo, di viaggio o meno.

Si torna così, in un diallelo, al quesito iniziale: il giornalismo di viaggio ha un futuro?

La risposta non può che essere un’ulteriore domanda: “le letture e l’irrequietezza” che fanno dell’uomo un viaggiatore e la curiosità che nasce dalla consapevolezza dell’”illusione dell’onniscenza” di internet sono prerogative dei soli giornalisti o nutrono anche lo spirito di un po’ di lettori, che poi sono quelli grazie ai quali tutto il sistema potrebbe marciare?

Personalmente non ho certezze granitiche, ma la prospettiva del rischio di un grande spazio (editoriale, commerciale, giornalistico) destinato per miopia a restare vacante mi inquieta.

Ciò che di sicuro non si può più fare è continuare a guardare nostalgicamente al passato.