di FEDERICO FORMIGNANI
L’età di mezzo condanna giochi d’azzardo, danze licenziose, dadi, carte e lusso, ritenuti fonte di corruzione. Come dimostra il “falò delle vanità” appiccato a Firenze dai Piagnoni, seguaci di Savonarola, per il Carnevale del 1497.

 

Nel Medioevo i giochi occupavano un arco temporale continuo e si intensificavano durante le feste comandate o tradizionali. La preoccupazione prima delle autorità civili ed ecclesiastiche era rivolta unicamente al tentativo di contrastare, anzi, combattere ferocemente, la diffusione dei giochi d’azzardo. Vivessero ora, avrebbero di ché disperarsi, vista la varietà e la diffusione dei giochi non più proibiti da Statuti o Grida, come avveniva un tempo, ma regolamentati addirittura dagli stati sovrani che introitano tasse non indifferenti sulla liceità delle quali è in tale sede opportuno sorvolare.

Molti statuti medievali (come lo statuto di Pomposa del 1295) proibivano i giochi d’azzardo che prevedevano la perdita di denaro; era, questa, pratica destabilizzante dell’ordine pubblico e portava le famiglie alla rovina. A Carrù (Cuneo) veniva chiamato ribaldus colui che, giocando ai dadi, si spogliava dei suoi averi usque ad camiciam; in altre parole, restava in mutande. C’era sempre qualcuno che aveva il tarlo inestirpabile del gioco d’azzardo, però in qualche caso disponeva anche di autocontrollo e buon senso, come il mercante fiorentino Arnoldo Peruzzi che, all’inizio del Trecento, aveva un libro dei conti sul quale annotava con scrupolo, oltre alle entrate e le uscite dei suoi commerci, anche le perdite al gioco sue e dei suoi figli, pur se contenute.

Chi prestava molta attenzione al diffondersi dei giochi leciti o meno, erano, naturalmente, le autorità ecclesiastiche. Veniva precisato con puntiglio quali fossero anzitutto i giochi illeciti: quelli nei quali la fortuna la faceva da padrona (dadi e carte); poi i giochi d’arme, quindi quelli licenziosi o esagerati quali le danze e i cortei carnevaleschi. Va anche detto che l’attenzione che la Chiesa riserbava ai vari giochi illeciti non era una preoccupazione di tipo sociale, ma di tipo religioso, perché fonte di peccato; la lussuria, la cupidigia, l’avarizia e la conseguente violenza erano tutte degenerazioni del gioco e in quanto tali da combattere. Il periodo in questione è il medioevo e gli ultimi anni dello stesso.

Dal Quattrocento in poi, il mondo religioso – specie quello degli Ordini Mendicanti – affronta con vigore il problema del gioco. Vengono redatti elenchi dei peccati che erano collegati al gioco d’azzardo, che veniva considerato un furto ai danni del prossimo e quasi un’appropriazione indebita, perché quello che il giocatore vinceva, non gli apparteneva. Poi chi giocava veniva bollato come cattivo esempio per tutti e in particolare un corruttore di giovani. Ma non finiva qui, la serie delle imputazioni; grave per il giocatore era dare dolore a Dio perché lo bestemmiava quando il gioco gli andava male, forse perché si sentiva tradito da Colui che aveva invocato a protezione! Senza contare che si macchiava del peccato di idolatria, perché sostituiva l’amore per Dio con quello per il denaro. Non bastava tutto questo? Era anche, chi giocava a carte o con i dadi, un dissipatore di tempo che apparteneva solo a Dio che ne aveva fatto dono all’umanità affinché operasse al meglio per procurarsi la salvezza eterna.

La Chiesa, paragone forte ma che dà l’idea della sostanza delle cose, inculcava tali concetti a martellate. Le prediche infuocate spesso si concludevano col rogo di beni di lusso, di oggetti per il gioco, tutti veicoli potenziali di peccato. Un po’ ovunque si accendevano i cosiddetti “falò delle vanità”. Quello storicamente più famoso venne appiccato dai Piagnoni, che erano seguaci di Girolamo Savonarola: Firenze, Carnevale del 1497.