di URANO CUPISTI

Nel 1990 partii per la caotica capitale, già allora con 18 milioni di abitanti. “Resisterai quattro giorni“, mi dissero. Ce ne rimasi dodici e già dal secondo fui uno di loro. Mi inchinai davanti alla targa di Italia-Germania 4-3 e scoprii che, laggiù, il vero Garibaldi è Peppino, il nipote del nostro.

 

Già al tempo del mio secondo viaggio in Messico, nel 1990, la capitale di nomi aveva parecchi: Città del Messico, Ciudad de México, Mexico City, CDMX.  Comunque sempre meno dei suoi abitanti, che all’epoca veleggiavano oltre i 18 milioni di persone. A quelli andrebbe aggiunto poi Tenochtitlan, come si chiamava durante l’impero azteco.

Una metropoli che trovai subito multiforme, intricata, complessa.

Costruita su di un altipiano e protetta da una caldera, a 2200 metri di altitudine (più o meno) era inquinatissima, avvolta da una coltre di smog che poteva solo confidare in un intervento divino, ossia un benefico vento che spazzasse via tutto e begli acquazzoni capaci di rendere l’aria di nuovo respirabile. “Sei europeo”, mi avevano detto, “e resisterai al massimo tre o quattro giorni“.

Invece ce ne restai una dozzina, scorrazzando in lungo e largo con un maggiolone Volkswagen presso a noleggio e made in Mexico, che con un litro di gasolina, faceva a malapena sette chilometri. Insomma detti anch’io il mio bravo contributo all’inquinamento.

Mi vidi tutti i monumenti più importanti: il Templo Mayor, un tempio azteco del XIII secolo, la barocca cattedrale metropolitana costruita dai Conquistadores spagnoli, il Palazzo Nazionale, che ospita gli storici murales di Diego Rivera, la Plaza de la Constitución, conosciuta con il nome di Zócalo, l’area ecologica Cuemanco di Xochimilco.

Passeggiai a lungo nei quartieri centrali e più pittoreschi come Roma, Polanco, Juárez e Condesa, mi soffermai a parlare con i chilangos, cioè i residenti, e feci con loro copiosi spuntini a tarda notte, visto che quella è una città in una città che non va mai a dormire.

E della mitica Piazza Garibaldi, uno dei siti più iconici, situata nel quartiere della Lagunilla, nel centro storico, ne vogliamo parlare? Da tutti conosciuta per i gruppi di mariachi, i musicisti norteños, quelli dello Stato di Veracruz che vi si riuniscono, utilizzando costumi e strumenti musicali tipici. Da molti anni è il posto più conosciuto dai  chilangos per affittare strumentisti e cantanti per serenate, feste, compleanni e serate messicane. La chiamano anche La Plazuela del Jardín, la Piazza El Baratillo ed infine Plaza Garibaldi, in onore di José Garibaldi detto Peppino valoroso che aveva combattuto con gli uomini di Francisco Madero nello stato di Chihuahua, durante la prima parte della rivoluzione messicana. Questo revolucionario aveva qualcosa a che vedere con Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi: ne era il nipote, figlio di Ricciotti Garibaldi e portatore del nome del nonno. Un gioco di nomi di battesimo che creano ancora oggi parecchia confusione. Ma luogo e date di nascita e morte di Josè alias Peppino – Melbourne 1879, Roma 1950 – chiudono definitivamente la questione. Delusi?

E poi c’era Teotihuacan la “Città degli Dei” atzeca.

La visitai il mattino presto, quando il sole iniziava a sorgere sulle piramidi e prima che i turisti iniziassero a stipare il posto. Il Tempio di Quetzalcoatl, il Viale dei Morti, il Palazzo Quetzalpapalotl e la inevitabile scalata alle piramidi del sole e della luna. Sembrerò banale, ma fu indimentcabile.

Dopo tanti anni, di quella Città del Messico, ricordo poi in particolare di quattro momenti: la scoperta del mondo interiore di Frida Kahlo a Casa Azul, il campus universitario dove ammirai i murales, compresi quelli dello Stadio Olimpico che ospitò i Giochi del ’68, opera di Diego Rivera, lo stadio Azteca, quello con la taga del famoso Italia-Germania 4-3 dei Mondiali del ’70, e infine, il ritmo frenetico della capitale. Indescrivibile, per chi non c’è mai stato.

Prima di partire mi avevano avvisato: “Quando ti sarai acclimatato, concediti un po’ di tempo per sperimentare il ritmo della vita di Città del Messico”.

Lo feci. A cominciare dal traffico: freccia a destra per voltare a sinistra, clacson a palla, parcheggio dove ti pare, imprecazioni a go-go. Il primo giorno fu infernale, ma dal secondo mi sentii a casa mia. Anzi, uno di loro.