di URANO CUPISTI
Ultima tappa dell’avventuroso viaggio on the road del 1990, sempre al volante da Merida a Uxmal, da Chetumal a Palenque, fino a Puerto Escondido. Non per scappare, ma solo per guardare le onde e chi ci stava sopra.

 

Fui costretto a prendere l’aereo della Compagnia Aeromexico diretto a Cancun e non quello prenotato della Mexicana de Aviancion con destinazione Merida, sempre nello Yucatan, per annullamento del volo poco prima della partenza. Mai saputo il perché. In Messico, nel 1990, poteva succedere questo ed altro.

Di fatto mi ritrovai su un Boeing 737 pieno di vacanzieri americani diretti nella località balneare maggiormente gettonata dal turista mordi e fuggi di allora, che avrei voluto evitare.

La mia permanenza si limitò a poco più di un giorno, che impegnai in lunghe trattative per noleggiare una Nissan, fare una passeggiata nella Cancun zona hoteleria, immerso in un mondo a misura di turista tutto compreso e un giretto in quello che restava della parte storica: un luogo artefatto, innaturale, finto, dove già regnava la movida. Anche i souvenir falsi. Tutti made in China.

Finalmente, a bordo della Nissan rosso fiammante e molto meno assetata del maggiolone di Città del Messico,  amico dei petrolieri, partii con destinazione Merida: la Ciudad Blanca, costruita sulle rovine della città maya T’ho,  la più popolata dello stato di Yucatan, nonchè sua capitale. Tranquilla, un piccolo gioiello coloniale, di quei posti dai quali non vorresti mai partire. C’erano viali alberati, musei, ristorantini accoglienti dove gustare la comida yucateca, una vera esperienza affascinante. E la sera ci respiri una diversa aria messicana. Niente sombreri, mariachi, movida e scena. Solo il brusio della gente per strada, nelle piazze, nei vicoli costeggiati dalle case bianche.

Di giorno era invece un cuore pulsante, dove potevo ammirare i palazzi dai mille colori, luoghi sacri, musei e la Catedral de San Ildefonso, una delle principali attrattive di Mérida. E al termine di ogni visita mi ritrovavo nella Plaza Mayor, sempre molto affollata .

Fu però il Museo dell’arte Maya che mi colpì maggiormente perché rappresentò l’antiparto per le visite a Uxmal e Cichen-Itza. Uxmal, uno dei siti archeologici più importanti e meglio conservati di tutto il Messico, mi fece tuttavia più effetto della rinomata Cichen-Itza, dove forse anche per ragioni di vicinanza i tour operator preferivano convogliare i flussi turistici.

Mi ritrovai di fronte ai trenta metri della Piramide dell’Indovino insieme ad una decina di persone, tutti saccopelisti, e fu una gara per risalirla e godere dall’alto un panorama incredibile di edifici come il Palazzo del Governatore, la Casa delle tartarughe, la Colombaia e ritrovarci poi nel bel centro del campo da gioco della pelota. Grande emozione.

Cichen-Itza, bellissima non c’è che dire, già nel 1990 era invece invasa dai vacanzieri. Bus strapieni provenienti da non solo da Merida ma direttamente Cancun, con masse di persone cariche di zaini pieni di bevande e sandwich, tutti incolonnati e l’uno invidiosi delle inquadrature dell’altro. Il momento migliore fu quindi una mezz’oretta al mattino e l’oretta della sera, prima della chiusura. Poco, veramente poco.

La mia Nissan era pronta di fronte alla posada di Merida per portarmi verso un’altra avventura: Chetumal, al confine con il Belize, nello Stato del Quintana Roo. Cosa ci facevo a Chetumal, fuori da ogni itinerario turistico? Volevo assolutamente ammirare l’antica architettura della città, con le affascinanti case in legno in stile inglese, resti di un’altra colonizzazione, quella britannica del vicino Belize. Tutt’altra atmosfera e poi quel dialetto ispano-britannico, tipico da luogo del border...

Era ora di rituffarsi nel mondo Maya e raggiungere Palenque, nello Stato di Chapas.

Avvolte nella nebbia e nascoste dalla giungla del Messico meridionale, le rovine Maya di Palenque sono un luogo sorprendente da scoprire”. Così trovai scritto su di un libro e così ho vissuto il mio passaggio tra quelle rovine tra gli strepiti delle scimmie urlatrici  a fare da sottofondo. Lo scenario era di grande impatto, su di una montagna in mezzo alla foresta pluviale. Quando ci andai io era ancora quasi tutta da scavare. Parlando con alcuni archeologi, mi dissero che (allora, nel 1990) si stimava fosse stato riportato alla luce meno del 10% del sito.

Ed ecco il Templo de las Inscripciones, El Palacio, il Templo del Sol, il Grupo de las Cruces, il Templo de las Calaveras, la Tumba de la Reina Roja. Proprio quest’ultima è rimasta per me il simbolo di Palenque: la Regina Rossa trovata in un sarcofago di pietra al centro di una camera funeraria. Chiamata così, in realtà, per la polvere rossa trovata sulla tomba e all’interno del sarcofago. Polvere che altro non era che cinabro, meglio conosciuto con il nome di vermiglione (rosso vermiglio) usato dai Maya nelle sepolture.

Ultima tappa del mio Messico fu lo Stato di Oaxaca, più precisamente la costa del Pacifico. E quando dici costa pacifica di Oaxaca non puoi non citare Puerto Escondido. Mai avrei pensato che in capo a un paio d’anni sarebbe diventato famoso per il film di Gabriele Salvatores. Ma in verità non ero attivato lì per cambiare vita sfuggendo a  omicidi e narcotraffici, ma per vedere, senza partecipare ci mancherebbe, le gare di surf su quelle famose onde e i tramonti sulle spiagge di Manzanillo e Carrizalillo, oggettivamente uniche. Come l’Agua Blanca, una spiaggia bella e solitaria, indimenticabile.

Confessione finale: non sono sicuro che vorrei tornarci, perchè forse il timore di trovare tutto troppo diverso è superiore alla nostalgia.