di URANO CUPISTI
Se quaranta giorni per girare il paese centroamericano vi paiono pochi, avete ragione: il nostro infatti ce li mise solo per visitare gli stati settentrionali, tra suggestioni western, echi di Pancho Villa, bus da paura e trenini a strapiombo.

 

Quando nel 1990 iniziai a raccogliere le notizie per preparare il mio primo viaggio in Messico, mi sentii perso.

C’era troppa roba, in quel paese, ed era impossibile pensare di studiarla tutta. Furiamoci visitarla: le civiltà dei Maya, dei Toltechi e degli Aztechi. Le conquiste spagnole, la storia di Massimiliano I del Messico (già Ferdinando Massimiliano d’Asburgo-Lorena) e di Pancho Villa, alias José Doroteo Arango Arámbula, l’eroe popolare della rivoluzione del 1910, il Messico pittoresco dei sombreri, piazza Garibaldi a Ciudad de Mexico coi suoi di mariachi, i gruppi “norteños”, i trii romantici e i gruppi di musica veracruzana.

Giunsi alla conclusione che un solo viaggio non sarebbe bastato e infatti ne organizzai tre: Messico del Nord, del Centro e del Sud. In due anni, con viaggi di 40 giorni ciascuno.

Cominciai dall’alto: Baja California, Sonora, Chihuahua, Sinaloa e Durango, alla scoperta di alcuni luoghi piuttosto temuti dell’America centrale a partire dalla tumultuosa Tijuana.

Arrivai in questa città di confine dopo un volo su Los Angeles e ore di bus lungo la costa sud della California. Passai a piedi la frontiera, devo dire senza difficoltà, e mi trovai da subito catapultato in una baraonda incredibile. Le notizie raccolte corrispondevano in toto. La frontiera, corridoio della speranza o della disperazione. E l’Avenida Revolucion, dove la notte, nei numerosi locali notturni, veri e propri bordelli, tutto era permesso. Nelle stanzette semibuie si scambiavano armi, droghe con contorno di prostituzione di basso livello, in particolare minorile (altro che Pattaya, in Thailandia…).

Capii subito che era meglio visitarla di giorno. Tijuana era il punto d’incontro tra il Messico, povero e tradizionale, e gli Stati Uniti, rappresentati dagli “yankee” ricchi che vi riversano fiumi di dollari. La mia permanenza a Tijuana, solo tre giorni, riuscì a trasmettermi un’attrazione irresistibile. Mi avevano avvertito: dopo il primo impatto, vero e proprio stordimento, entri in sintonia con lo spirito messicano, quello umile e gioioso ricordato in tanti film. Così fu.

La tappa successiva era Ensenada. Tutta un’altra pagina da raccontare. Baja California Norte, già al tempo del mio viaggio meta degli americani facoltosi che arrivavano con le prime crociere partite da San Diego. La mia scelta però non fu quella quella del bel vivere ma quella di un vivere vero, che sapeva di vino.

La Storia, quella con la S maiuscola ci ricorda i conquistadores, le miniere d’oro, le missioni dei francescani, domenicani e gesuiti e, di conseguenza, come avvenuto in Uruguay, Argentina e Cile, il fiorire della viticoltura.

Così, lì mi sono perso per diversi giorni tra i vigneti attraversando le strade della Valle del Guadalupe, ricca di rinomate cantine e anche sede di un interessante Museo de la Vid y el Vino. Accanto al mondo vitivinicolo, c’era la nascente produzione di birra artigianale.

Vuoi non arrivare fino alla punta estrema della penisola, ossia Cabo San Lucas, meglio conosciuto come Los Cabos? Nel 1990 era un luogo che offriva esperienze per tutti i gusti. Immersioni, gite in barca, pesca sportiva e vita notturna di alto bordo con tanti, tanti americani a stelle e strisce. Los Cabos, antesignano dei luoghi modaioli così come esplosi poi a Ibiza.

Ma non ero arrivato in Messico per quello, volevo respirare l’aria messicana, quella degli spazi infiniti, delle Sierre, dei luoghi delle scorribande degli western, delle popolazioni indigene di Sonora, i Mayo, Yaqui, Pima, Seri, Cucapá, Papago, Guarijio, Kikapù coi loro costumi, tradizioni, lingue. Lì non trovai stelle e strisce, solo qualche raro turista e alcuni viaggiatori incalliti. Immergersi in quel mondo, allora davvero ancora incontaminato, mi riportò all’essenza del viaggio.

Lo stato vicino, il Chihuahua, è il più grande del Messico. Il paesaggio è un deserto variegato, tra altopiani e pianure. Luoghi di molti set cinematografici per ricordare le gesta del rivoluzionario Francisco Villa, detto Pancho, contro le truppe di Victoriano Huerta. Come non rendere omaggio alla sua tomba, nella città di Chihuahua? E poi visitare Ciudad Juarez,  Aldama, Santa Eulalia, Hidalgo del Parral, dove Villa morì. Passai dodici giorni in lungo e largo sui bus messicani (un’avventura nell’avventura) e treni senza orari.

A proposito di treni messicani, non persi l’opportunità di farmi la tratta Chihuahua-Sinaloa col treno Chepe, uno dei più famosi e spettacolari al mondo: 635 chilometri attraverso il Copper Canyon, passando per El Fuerte, BahuChivo, Divisadero e infine il Creel. Ponti e tunnel considerati capolavori dell’ingegneria messicana e al tempo stesso adrenalinici, da dove ammirare straordinari paesaggi, scalando le montagne, sfiorando villaggi. Inevitabile una sosta  a Casas Grandes per visitare la zona archeologica di Paquimé. Ho saputo che nel 1998 è stata riconosciuta come Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO.

Il governo Usa nel 1990 invitava i suoi cittadini ad evitare lo Stato di Sinaloa perché ritenuto troppo pericoloso per la presenza dei narcotrafficanti. Io lo percorsi fino a Maztlan e non ebbi alcun problema. Anzi, mi feci conquistare dal suo fascino, dai paesaggi e dalle spiagge da cartolina lungo la costa est del Golfo di California, con Farallòn de San Ignacio, singolare formazione rocciosa che fa da habitat a una nutrita popolazione di uccelli, foche e leoni marini.

Partecipai pure, nella cittadina di El Fuerte, ad una partita di ulama e poiché la mia squadra vinse, finimmo a festeggiare in una specie di bar bevendo “damiana”, delizioso liquore a base di erbe, considerato afrodisiaco. Assicuro però che su di me non fece alcun effetto.

Arrivai all’ultima tappa: Durango, Stato e città delle leggende. La Monaca, il Confessionale del Diavolo, la Collina dei Rimedi e i sette scorpioni velenosi trasformati in souvenir in vendita sui banchetti nei piccoli mercati zonali. Era la terra dove nacquero Guadalupe Victoria, il primo presidente del Messico, Pancho Villa. Di cui, dopo aver visitato la tomba, visitai la casa natale, ovviamente.

Mi ci vollero dieci ore di autobus per tornare a Ciudad de Mexico e dal suo aeroporto internazionale.

Passai il viaggio già pensando a quello successivo: un’avventura nel Messico Centrale in Guernavaca, Hidalgo e Guerrero.