Note di un viaggio brumoso tra Acquapendente e Alta Tuscia, dove luoghi, cibi e atmosfere veraci possono vantarsi di non essere sempre instragrammabili, ma restano legati dal sottile fil rouge della normalità. Anche sociale. Parola di Ladyhawke.

 

Ci sono viaggi che aiutano a riflettere.

Sono spesso viaggi brevi, solitari, al volante. Dove tutto ciò che incroci – il paesaggio, la gente, le situazioni –  scorre placido sullo sfondo, senza assorbirti. Così non ti distoglie dai pensieri. Anzi, li concilia. Accrescendo lo stupore quando gli occhi cadono su qualcosa che non ti aspetti. E finisce per scuoterti a intervalli, come in una sorta di onirico dormiveglia in movimento.

Il breve viaggio di cui sto per parlare, e che per ragioni finora incomprensibili non trovavo la scintilla per scrivere nel modo che volevo, appartiene a questa categoria. Un viaggio che ho fatto nella stagione brumosa e fredda nella Tuscia Sociale. Dove Tuscia sta per Tuscia, l’Alto Lazio viterbese che ruota attorno a Montefiascone, Grotte di Castro, Acquapendente, al confine con la Toscana. E dove Sociale sta per Alicenova, la cooperativa che l’ha organizzato per far conoscere le proprie attività sul territorio dedicate al turismo sostenibile e alle fattorie solidali.

In qualche modo, la visita mi aveva fortemente impressionato. E rivedendo mentalmente, per l’ennesima volta, il film di quei giorni, finalmente ho capito perchè: in un mondo ormai quasi del tutto convertito, o convertibile, o in corso di conversione, o strategicamente orientato – nei desideri, prima ancora che nella realtà – ad attrazione turistica, insomma instragrammabile, imbattersi in luoghi capaci di beneficiare di una sobria, confortante normalità è ormai rarissimo. E in quei luoghi, ancora così impregnati di sana provincia, così privi di orpelli, così centripeti e marginali rispetto ai grandi meccanismi dei media e delle mode, la grandiosità del normale si respira a pieni polmoni. Somiglia a un tuffo liberatorio in un mondo reale in cui per strada si cammina tra concittadini e non tra turisti incolonnati o cellulari puntati su di sè a fare selfie.

In ciò è consistito, alla fine, il cuore della mia esperienza da quelle parti, che a flash si accende ora nella mia memoria.

Il primo è il lento, lungo avvicinamento, tra livide luci invernali, per vie consolari e provinciali, gloriose e desuete, fino all’arrivo notturno ad Acquapendente. Il secondo è la lunga passeggiata verso la S’Osteria38 nel buio del centro storico, per le strade coi bandoni ormai abbassati e la quasi incredulità di udire scalpiccìo dei propri passi giungere all’orecchio in un silenzio irreale, mentre sui comignoli e qualche finestra rimasta illuminata cala una nebbiolina simile a polvere. E’ lei che ottunde le poche vernici flash e si adagia sulle insegne dei negozi serrati, su qualche cartello per fortuna un po’ opaco e sbilenco, sulle botteghe del sarto e dell’idraulico (ma c’è perfino un cinema d’antan) che si alternano tra i portoni della case affacciate sul corso. Dove ogni tanto, non spesso però, sbucano una trattoria o un bar all’antica, tempio della briscola e del bianchetto.

Il terzo è quello della S’Osteria38, che ti sorprende dietro a una stretta curva ed è tante cose. Fa piacere scoprire che dietro al nome non si nasconde solo un originale calembour, ma il tentativo di sintetizzare nel nome un luogo ove – tra colori vivaci e sapori veraci – si fa ristorazione di qualità con prodotti bio ed eccellenze locali a km zero (ovviamente acquistabili), un’ospitalità attenta e confortevole ma senza stucchevolezze, si danno informazioni turistiche, si offrono spazi per coworking e mostre temporanee. “Siamo parte della rete di produzione di Alicenova e Fattorie Solidali, che promuovono l’inclusione sociale e lavorativa di persone delle fasce deboli della popolazione“, spiega Barbara Telluri di Alicenova. In altri termini, è quel tipo di posto che speri di trovare solo se non sei un turista col trolley, ma somigli più a un viaggiatore capace di pause e di riflessioni.

Il viaggio per immagini continua col profilo mattutino, quasi diafano, del Lago di Bolsena che appare all’orizzonte mentre la quattroruote con un fruscio ti porta – autoradio rigorosamente spenta – a Grotte di Castro. La storia etrusca è tutta riassunta nel bel percorso museale del Museo Civita, ricavato dal palazzo comunale progettato dal Vignola nel ‘500. Ci transitarono i Romani, I Longobardi e i Farnese, che lo annessero al loro ducato. Star del paese sono il sindaco Pietro Camilli, considerato il più grande allevatore di agnelli d’Europa, e Antonella Pacchiarotti, che invece coltiva l’uva di Aleatico e nella sua cantina monumentale seicentesca, in pieno centro storico, ne fa assaggiare ben sei diverse vinificazioni.

Ci vogliono un’altra trentina di km tra i colli di tufo e le strade di una campagna che sa d’Italia profonda per arrivare a Ischia di Castro e assaggiare un po’ a sorpresa gli spumanti metodo classico a base di Pinot nero, Chardonnay e Cabernet franc di Terre del Patrimonio, la cantina di Rosa e Michele Capece, e visitare il caseificio della Tenuta il Radichino, dove non solo i formaggi dei fratelli Pira, ma il loro agriristoro meritano una sosta.

Rallentando ogni tanto e guardandosi intorno, tra i campi e le frazioni cresciute un po’ disordinatamente, gli agglomerati e le estese tracce di un’agricoltura proba, ma non ancora pettinata ed anzi fieramente, quasi carnalmente contadina che occhieggia qua e là, non ci vuole molto a riannodare i fili dei profondi mutamenti sociali intervenuti su questa vasta regione, già latifondo e comunque rimasta in qualche modo legata nel profondo a certe radici. E’ una patina che si tocca, un’atmosfera che si respira e spesso scoperchia il vaso di Pandora delle leggende e delle suggestioni. Come quelle che aleggiano sul minuscolo borgo di Pianiano, antica rocca (e forse tomba principesca etrusca) affacciata sulle piane già acquitrinose della Maremma laziale. Il castello medievale, infestato dalla malaria, fu abbandonato ai primi del ‘700 e ripopolato nel 1750 da duecento albanesi cristiani in fuga dalle persecuzioni ottomane. Ma quando il Papa bonificò le paludi e le ripiantumò con gli olivi, i vecchi abitanti tornarono e cacciarono i nuovi, che però avevano fatto in tempo a far affrescare la minuscola cappella di San Sigismondo con la loro iconografia tradizionale e i simboli di Skanderbeg, l’eroe nazione. Dicono sia nato qui (o forse nel capoluogo Cellere) e ci abbia vissuto per venticinque anni il famoso bandito ottocentesco Francesco Tibursi. Poi la storia ha fatto il suo corso e oggi a Pianiano abitano appena in quattordici, tra cui una contessa. Forse è lei il falco che veleggia sulle rovine del fortilizio come una novella Ladyhawke della Tuscia.