NORTH EAST INDIA CHRONICLE/2. Tsangyang Gyatso, VI Reincarnazione (1683-1706), nacque in una frazione del villaggio, allora tibetano, di Tawang. I suoi discendenti ci vivono ancora. In una fattoria-santuario senz’acqua corrente. Lui, invece…

Fa una certa impressione trovarsi a guardare in faccia in un colpo solo, e poi a voltargli le spalle per le foto di rito, un Dalai Lama, i suoi genitori, un Re del Tibet e il fondatore del monastero dove il Dalai Lama crebbe. Eppure le loro statue d’oro stanno placidamente assise di fronte a me, una accanto all’altra, come riunite per sorseggiare il the, fissando il vuoto.
E fa una certa impressione che tutto ciò accada non in un tempio, ma nella penombra della cappella di una modesta casa di contadini, senz’acqua corrente, immersa in una remotissima valle rurale dell’antico Tibet, oggi stato dell’Arunachal Pradesh (India). Il villaggio, quattro case di legno e pietra circondate di piantagioni di riso e miglio, si chiama Berkhar, nel distretto di Tawang. A sua volta un ricciolo di conteso territorio indiano incastrato tra la Cina e il Bhutan.
Dove, anche se intorno si vedono solo montagne e contadini intenti nel raccolto, la Cina è davvero vicina. In ogni senso. Ti senti quasi addosso gli occhi invisibili e scuri dei suoi cannocchiali.
Curvo sotto il peso della sua gerla, tuttavia, l’ottantenne Shri Tashi Khandu, già ossequiatissimo primo membro dell’assemblea legislativa del Tawang District nel 1986, sembra non curarsene. Ha appena rivolto un gesto di devozione al mausoleo, poi ha sfiorato con la mano le preghiere rotanti del vicino altare, ha recitato qualcosa a bassa voce e ha ripreso la scalata verso la sommità della valle, parecchie centinaia di metri più in alto.
In lontananza, la sagoma delle donne intente nel rito della battitura si staglia contro le geometrie rotonde dei campi terrazzati, dai delicati toni pastello. Una contadina trasporta qualcosa sulle spalle lungo il viottolo. Lo stagno davanti alla casa è coperto da un velo di alghe verdissime. Qualche mucca, un pozzo.
Dentro invece, sotto il basso soffitto di legno che fa da pavimento al granaio, antichi libri di preghiere tibetane, incenso e reliquie raccontano, senza celebrarla, la storia a dir poco movimentata di Tsangyang Gyatso, il VI e controverso Dalai Lama. A raccontarla, intimiditi, ci provano anche i suoi discendenti, semplici agricoltori come lui e custodi – nè per loro fortuna, nè loro malgrado si direbbe – di questa stupefacente fattoria-santuario letteralmente sommersa in una ruralità che pare davvero senza tempo. Intrisa di una spiritualità composta, polverosa, a tratti distratta.
Sono abituati alle visite, la casa è aperta a tutti, vicini e devoti, pellegrini e sacerdoti. Anche ai turisti, se quassù ce ne fossero. E perfino ai giornalisti, se per accedere qui, nella restricted area, non ci volesse un permesso proveniente direttamente dal Ministero degli Affari Esteri a Dehli. “E’ una norma che vale per tutti – tentano di rassicurarci – anche per i membri del governo“. Colpa delle minacce cinesi, che hanno fatto di questa una “internationally sensitive area“.
Storie che risalgono proprio ai tempi di Tsangyang Gyatso, quando nacquero gli appetiti del Celeste Impero verso il Tibet, allora protetto dai Mongoli. Nelle quali il capo del buddismo sguazzò non poco.
Il futuro Dalai Lama, tenta di intervenire qualche ben informato provando a riportare il discorso lontano dall’attualità, non nacque qui, dove in realtà abitava la madre Yum Tsewang Lahmo e ora abitano i discendenti della sua famiglia, ma a Ugyenling, alcuni km sopra, dove si trova il tempio buddista di cui il padre, Yab Rigzin Tashi Tendar, era monaco e custode.
Ma è davvero importante, mi chiedo?
La sensazione è che, da queste parti, lo spirito di Tsangyang aleggi ovunque. Come del resto è nell’idea stessa del buddismo. Non a caso questa è la terra dei gonpa, cioè dei monasteri, e dei monpa, la gente del Mon, la tribù tibetana a cui apparteneva e che ancora tiene saldamente il distretto.
Aveva 8 anni, Tsangyang, quando lo individuarono come Sesta Reincarnazione, ma pare che non ne avesse vocazione alcuna. Fu viceversa donnaiolo, cacciatore, poeta, cantore, damerino. Tutto fuorchè monaco e contadino, insomma. A vent’anni provò addirittura a “spretarsi“. Ma nessuno gli tolse mai il riconoscimento. Era lui il reincarnato.
Così, oggi, il suo volto dorato troneggia nell’andito della casa materna, a picco sullo stagno e affacciata sui campi. Lo omaggiano i rari passanti e i coltivatori di miglio. Lo rammenta il muto salmodiare delle donne che, nel cortile del monastero di Ugyenling, depurano il proprio spirito travasando in silenzio per giorni, l’una nell’altra, decine di tazze colme d’acqua. E forse l’ha rammentato anche Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, che per scappare dal Tibet dopo l’invasione cinese del 1959 scelse proprio queste valli.
Appunto.