Il 22 gennaio del 2004 Fosco Maraini mi ha rilasciato quella che è stata forse la sua ultima intervista. Parlammo a lungo anche della città, di neve, di sci. Ecco quello che mi raccontò. Un modo diverso per ripensare all’atmosfera di questi giorni e ad uno stile che non c’è più.

Ventidue gennaio 2004, il grande orientalista e viaggiatore Fosco Maraini, all’epoca novantaduenne, mi riceve per un’intervista nella sua bella casa di Viale Magalotti, al Poggio Imperiale. Ci conosciamo da tempo e ci siamo (almeno spero) simpatici. Così accetta di buon grado di incontrarmi ancora una volta. E’ in vena, l’anziano professore. Ha voglia di parlare, nonostante gli acciacchi. Mi regala, autografandolo, uno straordinario libro sui riti di consacrazione degli imperatori giapponesi. Poi il discorso scivola sui ricordi. Fuori è freddo, nevica. Sapendolo appassionato, gli chiedo:
C’è una sciata che non dimenticherà mai?
E lui: “Tante. Una è certamente quella del 1937 nel Sikkim, in Tibet, durante la mia spedizione con il professor Tucci. Sapendo che andavamo in montagna, mi ero portato dietro gli sci: due pezzi di legno con i legacci di cuoio che avevo già usato per le mie escursioni sull’Appennino e per prendere qualche lezione da Zeno Colò. Trovai un pendio che era bellissimo e non potei resistere: salii in cima e mi buttai per la discesa. Avevo detto ai portatori di aspettarmi in fondo. Ma quando mi videro arrivare scivolando, tra gli spruzzi di neve e con quegli strani attrezzi ai piedi, scapparono a gambe levate e mi lasciarono solo: credevano che fossi un mago. Mi guardavano come se fossi uno che camminava sull’acqua. Invece ero soltanto, credo, il primo sciatore mai visto in Tibet“.
Altre sciate indimenticabili?
Due in particolare. La prima la feci sul Karakorum nel 1958, dai 6350 metri di un campo ai 5000 di quello più in basso: una sorta di tuffo verso il tramonto, su una superficie liscia, perfetta, velocissima. Una volata e una sensazione indescrivibili. La seconda è molto meno avventurosa e molto più buffa. La feci durante il nevosissimo e gelido inverno del 1929, qui a Firenze. La città era imbiancata. Io e i miei tre abituali compagni di avventure sull’Appennino, Bernardo, Fofo e Tonino, scendevamo con gli sci dal Piazzale Michelangiolo a San Niccolò, poi prendevamo l’autobus e tornavamo su per sciare ancora. Facemmo la stessa cosa sulle pendici di Fiesole e di Monte Morello. I nostri compagni di scuola, al liceo Dante, ci chiamavano “i feroci”, perché eravamo inarrestabili”.
Chissà quanti automobilisti, tra quelli rimasti bloccati per la città in questi giorni, avrebbero voluto mettersi gli sci e trovare la spensieratezza, la goliardia, la disinvoltura per tornare a casa scivolando tra i semafori e fregandosene di ingorghi, catene, divieti. E chissà che succederebbe se oggi qualche giovinastro, al cospetto della città innevata, invece di dedicarsi a meno acuti intrattenimenti, si presentasse alla fermata del bus con gli attrezzi in mano e gli scarponi ai piedi, salisse, poi scendesse a Piazzale Michelangelo e si buttasse da via delle Rampe. Forse a valle troverebbe i turisti a battergli le mani. O forse uno zelante vigile a multarlo per chissà quale infrazione.
Una scena che Maraini, grande viaggiatore, commenterebbe come al termine dell’intervista commentò le mie osservazioni al turismo di massa e ai viaggi organizzati: “Sempre meglio che stare a casa”.