di URANO CUPISTI
“Ripenso a cosa m’è rimasto impresso: la natura estrema, il cartello di Bahia Lapataia (dove finisce la strada che parte dall’Alaska). E la luce, il verde smeraldo delle acque increspate, i vapori da scambio termico che aleggiano a strati dividendo i colori del cielo, il volo degli albatros. E il faro”.

 

Mi ritrovo con il naso appiccicato al vetro, le mani messe a paraocchi a difesa delle luci della sala d’aspetto dell’aeroporto, nel buio di una fredda notte brianzola.
Con me il Moleskine a cui affiderò, come sempre, pensieri, riflessioni, osservazioni e convincimenti. Ed insieme a lui il libro che mi ha ispirato, influenzato, stimolato: “In Patagonia” di Bruce Chatwin. Rileggerò, di volta in volta, le emozioni di un grande viaggiatore per tentare di riviverle.
Com’è immensa Buenos Aires vista dall’alto. Baires è il concentrato di tutta l’Argentina. Nei suoi barrios sfoggia le origini europee, sembra sognare terre lontane nel tentativo di raggiungere “le capitali di discendenza oltre oceano”. I portenos, i suoi abitanti, sono affascinanti, emotivi, malinconici, ti chiedono da quale città arrivi, raccontano le loro “origini”, testardi nell’osservare le tradizioni, nell’amare la loro bandiera e custodire gelosamente quella d’origine, della seconda patria mai dimenticata. La Boca con la bomboniera, Caminito con i suoi colori, Palermo con i grandi viali e giardini, San Telmo con i caffè dove si suona il tango a tutte le ore, El Centro con la Casa Rosada, La Plaza de Majo, l’Avenida 9 de Julio ed infine il Barrio Norte con il cimitero chiamato Recoleta. Sotto il marmo nero di un sepolcro ricoperto di rose rosse fresche, meta di continui pellegrinaggi, la più famosa ospite, la più amata, la condottiera dei descamisados: Evita Peron. Si racconta che sia sepolta a 8 metri di profondità, protetta da una cortina di cemento armato, per evitare tentativi di trafugamento: il mito nel mito.
Pide un taxi, en cualquir momento, en cualquier lugar” recita una pubblicità gigantesca. Provo a chiamarlo, nada. Provo a fischiare all’americana, nada. Dopo un contrattare frenetico con un partenos decido di salire sulla sua auto. Mi accoglie una canzone italiana, “Argentina” di Francesco Guccini: “Il tassista, ah, il tassista non perse un istante a dirci che era pure lui italiano, gaucho di Sondrio o Varese, ghigna da emigrante, impantanato laggiù lontano…” Il sole sta calando, una luce magica avvolge Baires. Domani sarò in Patagonia. Inizierà l’avventura.

Eccomi a Trelew, raggiunta con un aereo delle linee interne, tremante paurosamente. “Senor, il viento patagonico”, precisa un mio occasionale compagno di viaggio alla vista della mio evidente irrigidimento. Eppure la giornata è limpida, assolata. Ben arrivato nel Chubut, ben arrivato in Patagonia.
Vede Senor, noi qui a Trelew ci siamo abituati, basta vedere dove è stata fondata questa città e come sono costruite le case”. A parlare un giovane indio assoldato per accompagnarmi alla scoperta di questa città (più di 80.000 abitanti) costruita in un avvallamento, protetta dai venti, immersa nel verde come oasi nel deserto. Facile capire il perché di tanto verde.
Storie legate ad immigrazioni di europei fuggiti dalle persecuzioni in patria e rifugiatisi qui per cominciare una nuova vita canalizzando le acque del Chubut, alimentare la pastorizia e l’industria della lana. Fuggitivi gallesi e persecutori inglesi. Cammino ammirando la cura dei giardini, i ricami e pizzi alle finestre in perfetto stile gallese, con i cartelli scritti in doppia lingua.
Sono pronto ad affrontare i cento chilometri che separano Trelew dalla costa atlantica di Punta Tombo, una carretera sterrata che porta verso sud in una distesa sconfinata, dove la solitudine si unisce all’immensità. Solo la presenza di pecore e qualche guanaco ad interrompere un paesaggio mosso dal vento tanto impetuoso quanto costante.
Dopo tre ore di pianura senza punti di riferimento l’inizio della parte collinare, con la carretera che si fa tra sinuosa tra continui saliscendi sul naturale baluardo messo come a difesa di qualcosa. E’ la presenza di gabbiani giganti uniti ad altri uccelli acquatici, in particolare le procellarie, ad annunciarmi l’Oceano Atlantico.
Tutt’intorno i pinguini magellano, piccoli, con piumaggio di colore nero sulla schiena e bianco sul ventre attraversato nella parte bianca da due strisce nere. Nascosti tra la bassa vegetazione, mimetizzati con l’ambiente, intenti a covare. Il frangersi delle onde sulla scogliera, il grido degli uccelli e più di un milione di pinguini di fronte a me. Il rito della pesca, il ritorno alle tane, il cambio di cova tra maschio e femmina scandito dal frantumarsi delle onde e dalla risacca.
Ma è già ora di trasferirsi a Puerto Madryn per la notte. Che emozione trovarsi in Patagonia e dormire in un grazioso B&B gallese. Pavimenti in cotto, caminetto e una proprietaria dalla pelle lentigginosa, capelli biondo-rossicci, vestito millerighe con corpetto ricamato, grembiulino ed immancabili calzini bianchi. La notte avvolge Puerto Madyrin in una atmosfera magica. Assaporo il vento marino aspro di salsedine, preludio agli “odori” del giorno dopo.
E’ la volta della Peninsula Valdes, un bestiario quasi più fantastico che naturale, con colonie di foche e di leoni marini. Urla, miasmi e il frangere del mare: le componenti di un puzzle che comprende i guanaco, camelidi selvatici sudamericani, volpi e i nandù, una specie di struzzo patagonico. Questa è la Patagonia Atlantica. Non ho avvistato le balene franche che da sempre scelgono, in primavera, queste latitudini per riprodursi. Ci speravo, però.
Ma devo già rientrare a Trelew, domani arriverò alla fine del mondo, cioè dove davvero volevo arrivare: la Terra del Fuoco, l’estremo lembo di terra australe. Chiamata così per i falò avvistati da Magellano nell’attraversare lo stretto che poi avrebbe preso il suo nome. Così diversa dalla pianura patagonica ma unita ad essa dal medesimo destino: fungere da passaggio di navigatori, coloni, esploratori, missionari. Tutti alla ricerca di una nuova dimensione esistenziale.
Dall’aereo osservo il lento abbandono del Chubut. Saranno i picchi innevati della grande isola al di là dello Stretto, che sembrano toccare la pancia dell’aereo, ad annunciarmi la meta. Come un grande uccello rapace che ha avvistato la sua preda, l’aereo si incunea tra le montagne che delimitano il Canal Beagle e, con una manovra da urlo, tra vento impetuoso e onde spumeggianti, tocca terra su di un piccolo lembo strappato ai marosi: bienvenido nella ciudad en el fin del mundo, Ushuaia.
L’avevo immaginata proprio così. Case basse legate da fasci di cavi elettrici, tetti in alluminio, finestre ampie per raccogliere il più possibile la luce, le strade spazzate da continue folate, traffico caotico concentrato nelle poche vie asfaltate, dove la cartellonistica stradale è elemento di decoro (o di indecenza) urbano. Anche la mia dimora non sfugge a questa indecente realtà. Ed infine il porto come ultimo approdo sicuro, punto di partenza verso l’Antartide. Ci trovo ormeggiata una piccola nave oceanografica, la Polar Star. Non lo so ancora, ma sarà la nave che in un futuro ancora lontano mi farà conoscere la Penisola Antartica.
Ripenso a cosa mi è rimasto impresso. Forse la natura estrema, forse il fascino del cartello di Bahia Lapataia (qui finisce la strada nazionale n° 3 che parte dall’Alaska). Ma soprattutto la luce, che determina scenari e colori di difficile descrizione. Il verde smeraldo delle acque increspate con quei tocchi biancastri, il vapore dovuto allo scambio termico, alzato dal vento, che aleggia a strati dividendo i colori del cielo, le nuvole rossastre che cambiano a tratti in minacciose, il volo degli albatross dominatori di questi cieli e il faro. Il simbolo della Fine del Mondo. Che emozione avvicinarsi, quasi a toccarlo, con le sue fasce rosse e bianche, messo lì a segnalare i pericoli per le navi o a ricordo di quanti naufragarono nel tentativo di attraversare il canale.
Alla fine del Mondo ero arrivato, alla Pampa patagonica dovevo tornare.

(1. continua)