di URANO CUPISTI
Nel 1981 mi aggrego a una combriccola che risaliva il tratto del Rio delle Amazzoni tra Colombia, Perù e Brasile. Un’avventura fluviale? Di più. False tribù primitive, wc pensili, una cultura “green” ma a metà e una realtà irripetibile.

 

La giungla amazzonica, là dove il grande fiume diviene navigabile, ti prende, affascina e ti trasforma in un esploratore alla ricerca di un mondo in parte ignoto. Figuriamoci nel 1981, esattamente quarant’anni fa, quanto tutto quello poteva apparire inverosimile. Il set di un film d’aaione con tanto di alligatori e piranha.

Avevo già ammirato il Perù “classico” e i maestosi scenari di Machu Picchu. E, spinto dal desiderio di fuggire dal chiasso della folla turistica che purtroppo già cingeva i luoghi, sconvolsi i miei piani organizzativi rimandando la visita a solchi Nazca, ad Arequipa e alle altitudini andine, lago Titicaca compreso. Abbandonai quindi i sentieri che i peruviani chiamano “Gringo trail” (cioè percorsi turistici frequentati dagli stranieri) e puntai a Nord-Est.

Sei ragazzi spagnoli di Toledo, conosciuti una sera a Lima, mi avevano convinto ad aggregarmi a loro per una grande avventura: raggiungere il quarto parallelo, vivere dieci giorni nella foresta pluviale e raggiungere Leticia là dove Colombia, Perù e Brasile s’incontrano. E fu così.

Partimmo con un vecchio DC6 della compagnia Faucett Perù alla volta di Leticia (Colombia), con scalo tecnico ad Iquitos (Perù). Era nostra intenzione percorrere il Rio delle Amazzoni controcorrente, risalendo il fiume fino al punto in cui diviene navigabile: Iquitos, appunto.

Il volo? Roba da capitani coraggiosi. Sedili semisfondati, tendine colorate ai finestrini e scritte da tutte le parti “Fuerza Aerea del Perù” a ricordare che era un veivolo dismesso dalle Forze Armate. A bordo una cinquantina di persone, quasi tutte dirette a Iquitos.

Superata la cordigliera delle Ande innevate ecco l’inizio della grande foresta amazzonica. Solo a scriverlo nel moleskine fui percorso dal pensiero della grande impresa che in quei giorni avrei vissuto. Immagini di immensi territori colorati di un verde cupo, dove i meandri fangosi del fiume segnavano le radici della foresta pluviale. Noi “esploratori” pronti a svelare i misteri lì custoditi.

Arrivammo a Leticia che era il tramonto a causa “del solito intoppo tecnico a Iquitos”. Del resto in America Latina sai sempre quando parti, mai quando arrivi.

“Leticia, la puerta de entrada a la Amazonía colombiana”. Questo il benvenuto all’aeroporto.

Un terminal-bus colorato, con tanto di bandierine colombiane, senza vetri ai finestrini, con le panche al posto dei sedili, ci portò nel centro di questa strana città, dall’aspetto molto turistico dove il desiderio di fuggire ti assale da subito.

Prendemmo alloggio in una specie di ostello, con letti a castello e bagni in comune. La permanenza prevista: due giorni per visitare La Isla de los monos (isola delle scimmie) e Puerto Nariño con i delfini rosa e la pesca dei piranha. Vuoi non raccontare queste due avventure turisticamente confezionate? Anche perché avventurarsi da soli, a quel tempo, era proibito e francamente impensabile.

Il nostro fine ultimo era l’avventura fluviale con un battello da carico da prendere nella vicina Santa Rosa de Yavari (Perù) d fronte a Leticia (Colombia) e Tabatinga (Brasile), per vedere le tribù degli Yanesha e Marunahua.

Fatta incetta di acqua, subito a bordo della Madre de Dios per scegliere l’amaca “più bellina” dove dormire nei tre giorni di navigazione.

Come compagni di viaggio mucche, maiali e galline con tanto di gallo per la sveglia mattutina. Una sala per mangiare vicina al ponte di comando, i bagni in comune con una sola doccia dall’aspetto orribile con un tubo nel soffitto a getto che pescava l’acqua fangosa dal fiume, senza porta e con un telo da abbassare per la privacy. In compenso la spesa per i tre giorni, pasti compresi, si aggirò intorno ai 20 dollari.

Eravamo gli unici stranieri dell’intera nave, il resto tutti peruviani.

Il menù? A colazione una tazza di farina d’avena con zucchero e acqua, un pezzo di pane bianco e frutta. A pagamento una tazza di caffè istantaneo o, in alternativa, tè. Il pranzo consisteva in riso con legumi e un pezzo di pollo. La cena una zuppa di verdure, pane bianco e frutta. Da bere Coca Cola o birra peruviana a pagamento.

La pulizia a bordo però era fantastica. Un vero approccio green. Dappertutto cestini rifiuti di tre colori, che venivano svuotati spesso. Nel 1981, a bordo di un barcone piatto nella sperduta foresta tropicale peruviana, già era predisposta una specie di raccolta differenziata. Cestini bianchi per la carta, cestini azzurri per la plastica, cestini marroni per tutto il resto. Il tutto finiva in vecchi bidoni. Pensavamo che questi, una volta arrivati ad Iquitos, finissero in discarica. Ahimé, non era proprio così. Nel bel mezzo della notte tutto finiva nel fiume.

E i componenti dell’equipaggio dormivano su stuoie a prua insieme agli animali, utilizzando l’unico bagno a poppa, cioè una tavola pensile seminascosta da un telo di plastica verde che permetteva di fare tutto direttamente in acqua.

Il tragitto Leticia – Iquitos coi battelli veloci si compiva in 8 ore. Noi ci impiegammo 3 giorni, perché erano previste fermate nei più importanti villaggi e cittadine lungo le due rive, per caricare e scaricare merci e persone. E questo ci permise, nelle ore di permanenza, di conoscere da vicino alcuni aspetti del mondo amazzonico.

Delle tribù Yanesha e Marunahua, invece, neanche l’ombra.

A dire la verità, insieme ai miei compagni di viaggio cademmo nella trappola tesa dal comandante (si fa per dire) del battello, che ci prospettò una “escursione” in un villaggio Yanesha a due ore di cammino nella foresta muniti di machete. Figlio di marinaio con l’esperienza nel rilevare la posizione osservando il sole, mi accorsi subito che il “comandante” non faceva altro che ripetere continuamente, avanti-indietro, il solito tratto di circa 200 metri per poi arrivare al “villaggio”. La faccio breve: gli Yanesha altro non erano che i marinai della Madre de Dios camuffati con parrucche, segni sulle facce, perizomi squallidi. Uno si era dimenticato di togliersi l’orologio. Non mancò nulla: c’era anche lo sciamano con l’oroscopo del giorno scritto in lingua quechua.

Inutile dire che tutti stemmo al gioco, danzando, mangiando pollo e bevendo coca-cola fresca presa da un frigorifero nascosto in una capanna. Scoprimmo che il villaggio era adiacente ad una strada che conduceva in cento metri al porto.

Tutto quanto fa spettacolo”, ci dicemmo. Ancher se la messa in scena ci costò 30 dollari a testa.

Forse era meglio tornare a toccare da vicino la vita vera, quella di tutti i giorni.

Caballococha si rivelò una cittadina (al momento della visita contava 3.500 abitanti) interessante per lo scenario della giungla che predomina nell’area circostante. Il porto e il traffico fluviale erano unica via di comunicazione con il resto del mondo. L’elettricità assicurata da generatori diesel che alla sera venivano spenti. Nelle poche ore di permanenza riuscimmo a cogliere la presenza di culture legate ad etnie diverse.

San Pablo de Loreto era un villaggio di circa 1.000 anime ricordato sulle mappe per la presenza di un lebbrosario. Sceso a terra mi colpì un grande manifesto raffigurante il “Che”. Mi raccontarono che il “comandante”, insieme all’amico Alberto Granado, aveva alloggiato negli anni cinquanta da quelle parti.

Pebas. Fummo pregati di non scendere per evitare spiacevoli incontri. Anche la policia local evita di lasciare la sua piccola stazione di “controllo”.

Indiana fu l’ultima cittadina prima di arrivare ad Iquitos. Già si respirava un’altra aria, meno fascinosa. La trovammo poco ospitale, chiassosa. Era saltata di colpo l’impalpabile connessione con la natura, le etnie dei giorni precedenti. Erano venute meno le emozioni, il “richiamo della foresta”. Avvertivamo la delusione di Iquitos?

Non fu proprio una delusione. Imparammo a sopportarla per quei suoi aspetti contrastanti: povertà e ricchezza, quartieri off limits e barrios eleganti con tanto di security ad ogni abitazione.

Alla fine la città offrì numerosi luoghi degni di nota. Le architetture coloniali, imperiose e allo stesso tempo  decadenti,risalenti all’epoca d’oro del caucciù, i mercatini artigianali di Malecon, il Barrio de Belén con il Pasaje Paquito e la cucina della foresta, unica quanto bizzarra.

Il Barrio de Belén si trova a 10 minuti di moto-taxi dal centro. Rappresenta il quartiere più pittoresco e magico di Iquitos con il suo enorme mercato, cuore pulsante della città.

Ai margini del mercato tonnellate di immondizia mai raccolta ed una situazione sanitaria sempre preoccupante. Scene che difficilmente dimentichi: cani randagi che, nell’immondizia, trovano il proprio cibo, in compagnia di “flotte” di topi e numerosi “gallinazos” (parenti degli avvoltoi). A completare il tragico quadro milioni di mosche e zanzare.

Señor asustado?cioè spaventato, mi chiese un venditore di frutta. “Encantado” risposi, aggiungendo resignado, cioè rassegnato.

I venditori urlavano, i clienti contrattavano, tutti cercavano l’affare. Il mercato era enorme labirinto dai mille vicoli pieni di banchi e negozi informali brulicanti di gente. La sensazione all’entrare è stata quella di essere risucchiati da “un’aspirapolvere e trasportati in qualche epoca passata” (così lo descriveva un depliant turistico).

L’odore e la sporcizia incrementarono con il passare delle ore e l’aumentare della temperatura ci fece fuggire. Era l’unica via di salvezza.

Pasaje Paquito lo visitammo con attenzione, era il vicolo più famoso nel mercato. Tra i banchi si potevano trovare tutte le erbe medicinali usate dai “curanderos” (una via di mezzo tra sciamano, stregone, curatore) per sanare ogni tipo di malessere, decine di “tragos” (liquori afrodisiaci), pomate di ogni tipo,  incensi naturali e polveri dai magici effetti psicotropi, ovvero allucinogeni.

Ed infine assaggiammo la vera cucina della foresta amazzonica: carni di animali come la “sachavaca”, un tapiro gigante, il “sajino”, ovvero una sorta di cinghialetto, armadilli, tartarughe, coccodrilli e scimmie. Fra l’immensa varietà di pesci di fiume è il “paiche”, ovvero il pesce più grande del Rio delle Amazzoni, quello maggiormente cucinato. Questo gigante dei fiumi può raggiungere una lunghezza di 2,5 metri ed un peso di 300 kg.

Rientrato a Lima, salutati i compagni d’avventura, ero pronto a completare la conoscenza di quel paese incredibile ed enigmatico con una spedizione.

Mi chiesi però cosa mia avesse lasciato dentro la giungla amazzonica, l’aver sfiorato mitiche popolazioni perdute, aver toccato una bellezza e una biodiversità senza pari.

Mi risposi che anche solo quello non sarebbe stato poco.