Rizzoli pubblica in USA “New York School Painters & Poets“, una sorta di monumentale diario-catalogo dedicato al fertile intreccio artistico sviluppatosi a NY nella seconda metà del ‘900 tra scrittori, pittori, poeti e fotografi.

Ci sono emozioni che ti arrivano addosso come il proverbiale cazzotto. E dalle quali esci tramortito, perchè mai avresti pensato che il loro effetto fosse così scioccante.
Quando il librone impacchettato è planato sulla mia scrivania ero impaziente di aprirlo, ma pensavo che tutto fosse comunque sotto controllo.
Il caso ha voluto però che il plico fosse messo a faccia in giù. E che il tagliacarte lo abbia squarciato rivelandomi a prima vista non la copertina, bensì il retro del volume: questo.
Lì si è materializzato il deja vu. Folgorante.
Ho fissato la fantasia giallina della camicia azzurra di Ron, così minuta da sembrare fatta di ideogrammi. Poi le righe gialle e spesse dei pantaloni blu scuri di Ted. Come teleguidato, l’occhio si è spostato sul quadretto affisso sulla parete bianca dello sfondo, in una perfetta geometria degli spazi. “I’m the Sky“, dice lo slogan dipinto sulla colomba con una rosa nel becco. Ho contemplato per qualche attimo la fissità della scena, le vaste porzioni di tela lasciata bianca per dare all’insieme un voluto senso di incompiutezza, di vita effimera e quotidiana. Come l’istantanea di un dipinto che dava senso al dipinto stesso, cristallizzandolo.
Dalla vista, l’attenzione della mente si è spostata al tatto.
E sotto le dita mi è sembrato di risentire la superficie liscia della tempera di quel quadro, il senso di sorprendente leggerezza provata nonostante il formato (2 mt x 2, più o meno). E il moto di meraviglia avvertito nel momento in cui l’opera, assieme a decine di altre, uscì alla luce dall’oscurità polverosa di quel deposito dal quale, a mano, l’avevo appena estratta. A caldo, dedicai all’episodio uno dei primi post (qui) di questo allora giovane blog.
Novembre 2009, un enorme magazzino di box in affitto, di quelli ricavati da vecchi stabilimenti industriali come solo a Manhattan ce ne possono essere ancora, incastrati con naturalezza tra le maglie di una città apparentemente tentacolare. E invece, a volte, larga e perfino ariosa.
Era una mattinata lattiginosa. Io, Daniela, Caterina e Emilio. La sera si sarebbe tenuta in St Marks Place una commemorazione di George.
George era un grande amico. Marito di Caterina e padre di Emilio. Di cognome faceva Schneeman. Era morto dieci mesi prima, autore della tela del 1968 che avevo spolverato e contemplato uscendo dal magazzino.
E che adesso mi ritrovo sbattuta in faccia, senza preavviso, sulla quarta di copertina di questo “New York School Painters & Poets” di Jenni Quilter, con contributi di Bill Berkson, Larry Fagin e Carter Ratcliff (Rizzoli New York, 317 pagine, 52 euro su Amazon) uscito l’altroieri.
Botta emotiva. Come un filmino in bianco e nero uscito dai cassetti dopo decenni.
Perchè in questo libro, monumentale come un catalogo e intimo come un diario, che traccia la storia dell’intreccio artistico sviluppatosi a NY nella seconda metà del XX secolo tra scrittori, poeti, pittori, fotografi, grafici, creativi, critici, George Schneeman è ovunque. Aleggia tra le righe, occhieggia dalle foto. Parla. Egli era non solo un membro di quella comunità liquida, a suo modo schiva, ma anche creativamente frenetica, febbrile sotto il rombo della metropoli, ma ne costituiva al tempo stesso uno dei principali tessuti connettivi. Era trasversale, era il liquido nei vasi comunicanti.
Ritrovarlo ora, con quel suo sguardo guizzante, tra le pagine di un volume che è un omaggio niente affatto autocompiaciuto, vederlo affacciarsi non solo dalle tante riproduzioni dei suoi dipinti, gli stessi che ho visto a casa sua e in quel magazzino, e che vedo ogni giorno a casa mia, ma da lettere, poemi, articoli, memorie e annotazioni, apre uno squarcio inedito su di lui e sui suoi amici di sempre (Ron Padgett, Anne Waldman, Bill Berkson, Ted Berrigan). Presenze carsiche in una temperie fluida.
Dandoci per la prima volta un quadro completo della scena che quegli artisti e quegli scrittori condividevano – scrive Carter Ratcliff nella prefazione – il volume mette in luce le unioni e le tensioni, la giocosità, il glamour e la sorprendente autenticità delle loro collaborazioni. Abbiamo qui non solo l’evidenza del loro modus operandi. Possiamo anche percepire l’esuberanza di un certo modus vivendi, del loro stile di vita“.
Vero: non si potrebbe descrivere meglio il senso di quelle esistenze e del loro intrecciarsi in una comunità aperta ma spesso timida nella sua sfrontatezza, profondamente generazionale.
Per quel pochissimo ma illuminante tempo che l’ho frequentata, posso dire che è buffo pensare quanto essa fosse e forse sia ancora molto concentrata su se stessa. Centripeta. Senza alcuna consapevolezza, credo, della propria rarefatta influenza sulle generazioni successive. Quelle del rock and roll.
Il senso di tutto questo affiorava già nel distico con il quale il NYTimes apriva l’articolo dedicato alla memoria di George, il 30 gennaio del 2009: “If George Schneeman was an “unfairly obscure” painter, as The New Yorker once called him, he did not mind it very much“.
Chi vuole capire meglio non si faccia sfuggire questo “New York School Painters & Poets“.