Ovvero l’arte di gustare una melagrana seduti sotto il leccio di casa, coi gatti attorno e la luce arancione dell’autunno che filtra tra le fronde.
Dicono che il clima è cambiato e dev’essere vero: ora ottobre arriva a novembre.
Mi riferisco a certi pomeriggi luminosi, con la luce tersa, il cielo azzurro intenso e i raggi del sole che, già obliqui, anche nel mezzo del giorno hanno una leggera tonalità arancione.
Oggi era una giornata di queste. E allora io mi sono seduto, dopo pranzo, sotto il leccio.
Lo facevano anche mio nonno e, racconta chi l’ha conosciuto, anche il mio bisnonno. Pure il trisnonno, credo.
Loro si sedevano lì a leggere il giornale.
Allora le notizie correvano lente.
Io invece, che vivo nell’era delle notizie veloci e che, soprattutto, sui giornali ci scrivo, mi sono messo a fare una delle mie attività ottobrine preferite fin da bambino, durante i fine settimana non ancora resi frenetici dalla smania adolescenziale, nè avvelenati da incombenze scolastiche: allora le lezioni cominciavano il primo del mese e ottobre era ancora periodo di orario provvisorio.
La mia attività preferita era stare all’aperto, nel cortile, a mangiare le melagrane che qualcuno coglieva sui greppi del borgo.
In realtà non so, nè all’epoca mi sono mai chiesto, perchè non ce ne fossero anche nel frutteto della fattoria e nemmeno in giardino. Ce n’erano di copiosi, invece, proprio sui fianchi della collina. Defilati. Mia nonna ordinava di andare a raccogliere le melagrane e poi, siccome non si fidava che l’incaricato lo facesse bene, andava a controllare. Tornava con panieri pieni di quei frutti che mi facevano impazzire.
Il mio non era un gioco, nè un peccato di gola: era un impegno vero e proprio.
Sì, perchè aprire e gustare una melagrana è un’arte. A spezzarla o a tagliarla col coltello, rompendo i chicchi e imbrattandosi le mani di succo, sono bravi tutti.
L’autentico esegeta, invece, la apre con la massima delicatezza, usando solo le mani e al massimo i denti (io mi mangiavo le unghie e l’operazione poteva risultare complessa), attaccando i punti deboli della buccia e delle suddivisioni interne. Lo scopo è estrarre i chicchi integri, perfettamente asciutti, dai tozzi in cui il frutto è stato suddiviso, raccoglierne un po’ nel palmo della mano e metterli in bocca. Dopodichè proseguire con gli altri tozzi.
Attenzione, però: guai a masticare! I chicchi vanno schiacciati con la lingua contro il palato e poi inghiottiti, semi compresi.
Così, a memoria, solo in Bosnia credo di aver assaggiato melagrane fragranti, corpose, croccanti e non stucchevoli come quelle di casa mia.
Suggestioni, certamente.
Ma vuoi mettere?
Comunque sia, il giochino funziona ancora.
Oggi me ne sono fatte fuori cinque o sei, con massima goduria, circondato dai gatti che giocavano con gli scarti.
Sole di fianco, in tralice, appena filtrato dai rami bassi del leccio, con il tetto di casa a fare da orlo dietro al quale, un paio d’ore dopo, l’astro è andato a nascondersi.
Incredibile a dirsi, nessun seccatore e neppure auto rumorose nei paraggi. Solo il rombo lontano e tranquillizzante di un trattore intento nella semina, colonna sonora perfetta di una giornata in sospensione tra pace bucolica e vigore georgico.
Ora sono rientrato e l’intermezzo mi ha giovato assai.
Mentre scrivo, quello che vedo dalla finestra è nella foto.