In una mostra milanese gli oggetti, i gioielli, le lettere, le dediche, i libri, i disegni, le riviste appartenuti alla saggista e traduttrice scomparsa nel 2009. Tra tanti inediti e un’atmosfera malinconica di palpabile nostalgia. Dove, forse, l’attualità consiste nel documentare la fine di un ciclo.
C’è chi ha vissuto a lungo tra “Case, amori, universi”, come Fosco Maraini. E chi, altrettanto a lungo, tra “Viaggi, cose, persone”. Come Fernanda Pivano. E come il titolo della mostra a lei dedicata nella Galleria del Gruppo Credito Valtellinese a Milano (Corso Magenta 59) fino al prossimo 18 luglio.
Una mostra – un po’ a sorpresa e un po’ no – eclettica, organizzata prendendo spunto da e tenendo conto di tanti piani diversi e paralleli, che percorre trasversalmente, a ritmo lento, tutte le sfaccettature di una vita senza dubbio fuori dal comune, quale è stata quella della Pivano. Piena di curve e di incroci, ma anche di destini convergenti, di fortunate circostanze, di felici intuizioni, di maree imprevedibili, di risacche favorevoli.
Chi era meno addentro al sistema della cultura ufficiale e a certe frequentazioni aveva imparato a riconoscerla leggendone distrattamente il nome come traduttrice di alcuni classici della letteratura americana – da Ernest Hemingway a Francis Scott Fitzgerald, da William Faulkner a Edgar Lee Masters – salvo poi scoprirla anche autrice di saggi e di note critiche su quegli stessi autori. E da qui l’aveva vista trasmigrare con naturalezza, via Kerouac, a tutta la genìa del beat di Ginsberg, Corso, Burroughs e quindi, passando per Bukowski, ai cantautori dell’America per eccellenza, sospesi tra protesta, poesia e rock’n’roll: Bob Dylan, naturalmente, e Patti Smith, solo per citarne due dei più famosi. Per approdare, quasi al termine del percorso, in una sorta di curiosa palingenesi transatlantica, a quelli di casa nostra, con i quali strinse un tardivo ma convinto sodalizio: Fabrizio De Andrè, Vasco Rossi, Luciano Ligabue, che la definì “la veicolatrice di una cultura di cui abbiamo avuto un disperato bisogno”.
Strana e luminosa parabola insomma, quella della Pivano, allieva di Cesare Pavese (che per primo le “passò” Hemingway a Whitman in lingua originale) e poi quasi cronista, per sessant’anni, della temperie letteraria che ella stessa aveva contribuito ad alimentare e a diffondere.
Fin qui ce ne sarebbe già abbastanza per celebrare la memoria di questa figura assai amata, “ponte” riconosciuto tra gli Stati Uniti e il Belpaese, e di un’intellettuale protagonista di carteggi, incontri e amicizie con i protagonisti di oltre mezzo secolo di letteratura mondiale.
Ma la mostra milanese va oltre e svela aspetti della personalità e della vita della Pivano meno noti al grande pubblico. La sua passione per i viaggi, ad esempio. Non solo i tanti Italia-Usa, sempre fonte di nuovi incontri e stimoli, ma in tutto il mondo, in paesi lontani. Dai quali riportava oggetti, souvenir e gioielli tanto numerosi da costituire una sezione della mostra stessa. Gli anelli, in particolare: una sorta di personale fil rouge in cui Fernanda faceva confluire il gusto per l’etnico e quello per la ricerca, il design, la forma ardita, con la sua ricchissima collezione di rings disegnati per lei da artisti come Arnaldo Pomodoro e dal marito Ettore Sottsass, o quelli di bigiotteria “creativa” degli anni ’50, ’60 e ’70 o, ancora, quelli nati dall’inventiva di grandi stilisti purchè eccentrici, strani, “pop“.
Un’inclinazione per la creatività che ha attraversato, anch’essa trasversalmente, tutta la sua esistenza e che nell’esposizione milanese trova riscontro nei tanti pezzi di “instant design” realizzati per lei da artisti e da amici, i disegni con dedica, lay out di riviste, schizzi, fotografie, montaggi in cui, come in una sequenza documentaristica, tutti i protagonisti del suo mondo e della cultura dal dopoguerra ad oggi, che poi erano gli stessi, riaffiorano carsicamente e si intrecciano, in una sorta di cerchio che si chiude.
E proprio su questa chiusura, su questa sensazione di fatale fine di un ciclo di cui la Pivano è stata, almeno in Italia, tra le protagoniste e i simboli, si innesta anche il vago sapore di nostalgia che emana da “Viaggi, cose, persone”. Un alone sottile di rimpianto, un filo quasi impercettibile di autocompiacimento, un tenuissimo ma inequivocabile sentore di “come eravamo”. E una velata tristezza. Resa più rarefatta, e così anche più acuta, da un allestimento che, per meglio evocare i tanti mondi di cui l’universo della Nanda era permeato, unisce e salda il verticale e l‘orizzontale: foto, filmati e immagini sull’uno, un lungo piano, a cui vengono affidate le cose, le carte, le lettere, per l’altro. E’ un loop lungo una vita e mezzo Novecento.