Dopo l’Erebus, nell’artico canadese hanno trovato anche il relitto del Terror, l’altra nave dell’esploratore inglese misteriosamente scomparso tra i ghiacci nel 1844. Ma le domande si infittiscono. E il fascino suscitato da libri, leggende e canzoni a lui dedicate non si dissipa.

 

Soundtrack: “Lord Franklin“, Pentangle

 

Scoprii la storia di Lord Franklin e della sua misteriosa scomparsa tra i ghiacci artici, alla ricerca del passaggio a nord-ovest, non leggendo i libri di storia della navigazione. Anzi, non l’appresi dai libri tout court.
L’appresi verso i 16 anni, come spesso mi succedeva allora, dai dischi.
Avevo appena comprato, in edizione ovviamente economica, un capolavoro del folk revival inglese: “Cruel sister“, dei Pentangle.
E tra le canzoni c’era un brano tradizionale cantato con grande ispirazione da John Renbourn che si intitolava, appunto, “Lord Franklin“.
Indimenticabile l’incipit: “I was homeward bound one night on the deep / swinging in my hammock I fell asleep / I dreamed a dream and I thought it true / concerning Franklin and his gallant crew“.
La sua vicenda fece epoca nell’Inghilterra vittoriana, dando vita a una saga di libri, racconti, fantasie e canzoni popolari, come appunto quella da me tanto amata.
Partito con un centinaio di marinai sul Terror e l’Erebus, due vascelli reduci dalla guerra d’indipendenza americana di settant’anni prima, Franklin si era diretto alla ricerca di un passaggio navale che consentisse di raggiungere il Pacifico dall’Atlantico, attraverso i mari ghiacciati, senza costringere i naviganti a doppiare il pericolosissimo e lontanissimo Capo Horn. Una rotta commerciale potenzialmente decisiva per l’economia e i trasporti dell’epoca.
Era il 1844. Le navi furono avvistate per l’ultima volta al largo della Groenlandia nel 1845. Le ultime tracce dei resti della spedizione, che aveva abbandonato i velieri e aveva tentato il rientro a piedi – un’impresa disperata – verso le coste canadesi, risalivano al 1847.
Li cercarono per un decennio. Poi mistero assoluto. Solo leggende, congetture, ricerche senza esito. Gli Inuit raccontavano di aver sentito a lungo, sebbene sporadicamente, colpi di moschetto che solo qualche naufrago poteva aver sparato. Ma chissà chi, chissà dove.
Due anni fa, a sorpresa, spunta invece il relitto dell’Erebus.
E ora, in una posizione però del tutto diversa da dove si supponeva (il che in qualche modo infittisce, anzichè dissipare, certi interrogativi sulla spedizione), hanno trovato quello del Terror.
Pressochè intatto, sembra. Con la campana e qualche bottiglia di vino a bordo.
Chissà se adesso a qualche miliardario o qualche istituzione ne tenteranno il recupero.
Quello che è certo è che nulla, ormai, potrà sottrarre la figura di Frankin all’aura che l’ha avvolto per oltre un secolo e mezzo.
Comprese quelle note di chitarra e concertina che accompagnano la voce di Renbourn, da poco scomparso anche lui (qui), e che tanta fascinazione continuano a esercitare su chi le ascolta.
Non so se Georgina Boyes abbia ragione quando, in “Imagined village“, sostiene che la musica tradizionale inglese è stata un’invenzione tardo ottocentesca per legare il popolo dell’impero all’idea di una continuità col passato rurale in realtà spazzato via dalla rivoluzione industriale e dallo sradicamento. So però che, anche se finzione fosse, essa ha prodotto una gran musica.
Senza la quale molte cose, compresa la storia di Franklin, mi sarebbero rimaste più oscure.