LIBRI DI NATALE/1. “Senza nome”, del vittoriano Wilkie Collins, pesa davvero come un mattone e ne ha le stesse dimensioni. Ma l’abilità narrativa dell’autore (lo stesso del fenomenale “La Pietra di luna”) è tale che vorresti che le pagine non finissero.

Le condizioni perchè non lo comprassi c’erano tutte: peso e dimensioni di un mattone vero, esposizione tra la letteratura popolare nelle pile vicino alla cassa all’ora di chiusura, orripilante strillo di raccomandazione in copertina – all’amerikana – firmato oltretutto da un personaggio a me insopportabile come Alessandro Baricco.
Stavo per passare oltre quando l’occhio mi è caduto sul nome dell’autore: Wilkie Collins. E allora il mio mood verso quel romanzone dall’aspetto commerciale è cambiato di colpo.
Wilkie Collins è, anzi era, visto che è vissuto nell’Inghilterra vittoriana, uno scrittore straordinario. Autore di un assoluto capolavoro come “La pietra di Luna“, il protogiallo (nel senso che è proprio Collins ad essere considerato il padre del genere, quando ancora esso non esisteva sotto quel nome) che qualcuno ricorderà nel bellissimo, sebbene assai inferiore all’originale, adattamento tv degli anni ’70 con Aldo Reggiani e Valeria Ciangottini.
Senza nome” (Fazi Editore, 745 pagine, 18 euro e 50), all’epoca pubblicato a puntate su “All the Year Round“, la rivista fondata da Charles Dickens, ha tutte le caratteristiche del feuilleton pensato per inchiodare il lettore alla poltrona. E ci riesce perfettamente.

Solo che lo fa grazie non solo in virtù di un intreccio ingegnosissimo e mai banale, nonostante invece la banalità degli ingredienti narrativi (una signorina nobile di sangue e di sentimenti cade in rovina a causa del destino e dell’avidità altrui e per riconquistare il patrimonio e il rango perduti affronta, umiliandosi, le procelle sociali e sentimentali della società dickensiana), ma con una brillantezza di scrittura e una capacità di raccontare le sfumature “psico-e-logiche” assolutamente fuori dal comune. Il tutto, va sottolineato, con termini e in un’epoca in cui non era pensabile nè possibile far ricorso a spigolature pruriginose, sesso, dettagli espliciti e neppure troppo conclamati sentimenti.
Eppure il racconto si snoda brillantemente in un un’inesauribile rincorrersi di colpi di scena perfettamente annodati tra loro tra feste danzanti e giochi in giardino, bassifondi londinesi, serve sordide, amori non ricambiati, Indie orientali, calessi e carrozze, perbenismi, manigoldi, allieve e istitutrici, cuffie, organze, taverne, the delle cinque, spiagge di ciottoli, scogliere, marinai in partenza, battelli sul fiume, brume autunnali, maggiordomi, lettere, delazioni, spiate e tradimenti.
Abile nel tratteggiare caratteri e umori, padrone perfetto della lingua (e complimenti al traduttore!), Collins sfodera anche virtù di paesaggista, descrivendo da par suo, in totale coerenza con le atmosfere via via evocate nel romanzo, tanto le campagne del Suffolk quanto i quartieri malfamati di York, mura cadenti e ville sontuose, i fermenti di Londra e l’immobilità della provincia.
In una storia in cui, più che un male necessario, il denaro pare essere il motore invisibile e indispensabile al moto del mondo, oltre ai personaggi umani “Senza nome” ha però anche un altro, immateriale protagonista: lo scrivere. Sono infatti le lettere, i biglietti, le corrispondenze che i protagonisti si scambiano ora la leva narrativa, ora la cinghia di trasmissione del racconto. Con (sullo sfondo nella storia, ma in grande risalto per l’occhio a noi contemporaneo), la macchina rassicurante del collaudato sistema postale inglese e delle abitudini ad esso affidate: l’uso quotidiano della posta, la rapidità e la puntualità della sua consegna, diventano il liquido su cui la vicenda galleggia. E grazie a cui è impossibile, per noi, affogare di noia.