Ieri su FB, e oggi nel web, si è sviluppato un interessante dibattito intorno al caso della collega milanese (qui), precaria del Corriere della Sera, che, vistasi “scavalcata” nell’assunzione da un ”pivello” delle scuole di giornalismo, ha per protesta smesso di alimentarsi. Ottenendo subito forte solidarietà dall’ambiente (tanto la solidarietà non costa nulla), ma mettendo anche in evidenza gli equivoci, le ipocrisie, gli apriorismi ideologici e soprattutto la scarsa consapevolezza che, generalmente, la categoria ha in questa materia.

Cominciamo con una constatazione: lo sciopero della fame è una forma di protesta abbastanza clamorosa, che fa presa sull’opinione pubblica e sui media. Pannella ne ha fatto una professione fino a trasformarla in un rituale un po’ stucchevole, versione adulta della bizza. Per questo il metodo ci piace poco, a prescindere ovviamente dalla fondatezza delle ragioni di chi lo pratica.
Proseguiamo con una considerazione: se tutti quelli che ne hanno un buon motivo facessero lo sciopero della fame, rischieremmo di avere più morti che durante la carestia irlandese dell’800.
Concludiamo la premessa con un distinguo: una cosa è rifiutare il cibo per i grandi ideali, un’altra per una (pur grande, ma in termini generali irrilevante) causa personale.
Detto questo, resto convinto che lo sciopero della fame (e della sete, poi interrotto) iniziato giorni fa dalla collega Paola Caruso, professionista milanese che, dopo sette anni da precaria in attesa (o meglio, in speranza) d’assunzione, si è vista preferire un “pivello” venuto da una scuola di giornalismo, dia la giusta misura dello stato di frustrazione e di disillusione in cui vive oggi la categoria dei titolari di contratti a termine (i cosiddetti precari, appunto) e, più in generale, dei giornalisti che non hanno un contratto di lavoro a tempo determinato. Ovverosia circa il 75% dei quasi 110mila iscritti all’ordine professionale.
Difficile, d’istinto, non solidarizzare con la collega. Alla quale, moralmente parlando, l’assunzione spetta. Come per lo stesso teorico motivo spetterebbe a migliaia di altri giornalisti nella sua medesima condizione. Ma che – attenzione! – non le è legalmente dovuta. L’assunzione non è infatti (a meno che non sia di fatto già tale, cioè non si tratti di un caso di abusivismo) un diritto del giornalista, ma una facoltà che ha l’editore. E nessuno può obbligarlo, a parità di condizioni di legge, ad assumere te anziché tizio se ritiene, per ragioni (magari ingiuste) che non è neppure tenuto a spiegarti, che tizio sia preferibile.
Ovvio che questo sia frustrante per chi lo subisce. Peggio ancora se la decisione è o sembra presa per motivi estranei alle qualità individuali, la bravura, l’esperienza, l’affidabilità. Ma il principio per cui, se devo assumere qualcuno e non ho obblighi di legge particolari, ho la libertà di scegliere, mi sembra comunque sacrosanto e indiscutibile.
Proprio qui, però, casca il primo asino. Perché fra i tanti interventi a sostegno della causa della collega in sciopero della fame, moltissimi vertevano proprio su questo punto: il “diritto” ad essere assunti maturato in virtù dei tanti anni di precariato. Diritto forse morale, ripeto, ma di cui non vedo traccia nei codici. Un miraggio che forse sarebbe (stato) saggio soppesare bene prima di fare certe scelte professionali e di vita. E su cui, al momento dell’ingresso, l’Odg farebbe bene ad erudire i nuovi arrivati.
Il secondo asino casca nell’ampio esercizio che i molti intervenuti nel dibattito hanno fatto di individuare il “responsabile” di un tale deprimente stato di fatto. Si è letto di tutto: il governo (ti pareva…), i “padroni”, le scuole di giornalismo, il neoliberismo, le raccomandazioni. In ognuno di questi punti c’è forse qualcosa di vero. Ma tutti cadono nel medesimo errore: confondono i sintomi del male con la causa.
Perché la causa reale (ecco il terzo asino cadente) di questa catastrofe, un disagio covato per anni nel disinteresse generale, poi accolto con sussiego dalle istituzioni del settore (spesso a soli e tardivi scopi propagandistici), e trasformatosi infine in diffusa disperazione con il crollo del sistema conseguente alla crisi dell’ultimo biennio (e dei correlati, mi si passi l’ironia, “stati di crisi” dichiarati dalle aziende editoriali) è ilgiornalistificio” imperante. Una macchina infernale che, nella colpevole distrazione o nella complice omissione dei responsabili, si è autoalimentata fino a diventare un leviatano incontrollabile perfino dallo stesso conducente. Oggi infatti, e non da ora, è il sistema stesso a sfornare disoccupati, illudendo i giovani che l’ingresso nell’Ordine, il mitico “tesserino”, equivalga ad ottenere la ragionevole prospettiva, e magari perfino il diritto, di poter lavorare come giornalista. Con l’effetto di far riversare sul mercato del lavoro giornalistico una mole di manodopera disinformata e senza speranza.
E non mi si dica che la qualifica non può essere negata a chi a buon titolo la richiede, perché il punto è proprio questo: la bontà del titolo. Le norme di accesso alla professione sono un mix di leggi (ovviamente inaggirabili) e di discrezionalità dei consigli regionali dell’OdG. Perché non ci si è posti per tempo il problema, preferendo per anni chiudere un occhio e spesso tutti e due, non si sono applicate con rigore le norme (verifica della capacità professionale, della qualità e della quantità del pubblicato, congruità e certificazione dei pagamenti, continuità dell’attività svolta), non si è arginato l’assalto alla categoria e non ci si è chiesti quali sarebbero state le prevedibilissime conseguenze del lassismo? Il risultato di questa insensata “manica larga” è stata la creazione di almeno un paio di generazioni di giornalisti tali solo sulla carta, che in mancanza di prospettive non possono scegliere liberamente, ma sono costretti ad abbracciare per default la via del precariato o della libera professione come illusori, infiniti interludi verso la vagheggiata “assunzione”.
E in questa situazione di precariato cronicizzato, di invisibilità dei freelance, di masochismo professionale di molta gente che, contro ogni logica, accetta di lavorare per anni (non mesi: anni) praticamente gratis, l’autoreferenzialissimo sindacato dei giornalisti dov’era? Dov’era l’Fnsi quando, pur avendo in mano un po’ di residuo potere contrattuale, si sono firmati a raffica rinnovi contrattuali nei quali i liberi professionisti si faceva finta che non esistessero nemmeno? Che il nodo del tariffario libero professionale fosse una pinzillacchera? Che il 70% dei contenuti dei giornali non fosse prodotto dagli “esterni” anzichè dalle ipergarantite redazioni?
E’ giusto dunque, ma anche inutile e un po’ irritante, quanto scrive stamattina (qui) sul sito dell’OdG il presidente Enzo Iacopino: “Lo sciopero della fame di Paola Caruso è solo la punta dell’iceberg in un mondo fatto di quotidiani tagli e di soprusi che colpiscono i collaboratori…una situazione che ormai non può più essere tollerata…professionisti e pubblicisti con anni di esperienza, che restano ‘invisibili’ per cdr, capi servizio e direttori che li utilizzano molto, ma non danno loro la possibilità di avere progressioni di carriera, garanzie e un minimo di diritti…un far west di assunzioni ‘mascherate’ con contratti inappropriati che non vengono mai sanati; giovani che invecchiano con una certezza: resteranno nella casta che occupa il gradino più basso della gerarchia giornalistica. Una vergogna inaccettabile sulla quale il governo che, indirettamente, dispensa provvidenze milionarie agli editori, non ha il diritto di tacere. E non può tacere neanche il Parlamento che dovrebbe approvare in via d’urgenza la proposta di legge sui compensi ai giornalisti, da troppo tempo addormentata in commissione, una proposta che ebbe l’esplicita approvazione del ministro Giorgia Meloni, a nome dell’esecutivo. L’Ordine dei giornalisti appoggia la protesta di Paola Caruso che ha avuto il coraggio di denunciare quella che è una vera e propria piaga per la dignità della professione”.
Mi chiedo perché l’Odg non protesti anche verso se stesso e la propria miopia, nonché verso il suo contrappeso sindacale, artefice quanto l’Ordine di questo disastro ormai irreversibile che ricade sulla testa di tutti noi.