E’ praticabile da noi il ruolo del verificatore svolto dagli implacabili editor delle testate d’inchiesta anglosassoni? Forse no, per ragioni culturali e strutturali. Ma ci può soccorrere la tutela della natura fiduciaria della professione.

 

Giorni fa, in un interessante post su FB, Mario Todeschini-Lalli ha riportato un altrettanto interessante articolo di Alessia Cerantola che su Medium.com (qui il link diretto) racconta la sua esperienza di coordinating editor nella redazione di OCCRP (Organized Crime and Corruption Reporting Project), testata specializzata in giornalismo d’inchiesta.

Il suo lavoro, spiega la collega, consiste nel “coordinare il processo che va dalla proposta della storia, il “pitch” in inglese, alla pubblicazione finale” degli articoli. Si tratta in sostanza, continua, di un “lavoro giornalistico dall’altra parte della barricata” rispetto a chi propone il servizio. Ove la figura dell’editor, però, non corrisponde del tutto a quella italiana del redattore, trattandosi di “ruoli non completamente sovrapponibili nelle due culture giornalistiche“.

L’autrice illustra infatti il modo in cui, attraverso un’attività quasi entomologica – divisa per fasi e svolta da squadre diverse, spesso in disaccordo tra loro, consistente in una spietata e minuziosa analisi della proposta e della tesi che essa suggerisce, delle fonti offerte a suo supporto e delle pezze d’appoggio prodotte a riprova, del linguaggio usato, delle immagini e della grafica, della comprensibilità generale – a volte dopo mesi o perfino anni dal “pitch” iniziale il servizio vede finamente la luce. Un processo di verifica preventiva pressochè sconosciuto, o certamente molto raro, nel giornalismo italiano.

Al cospetto di un così complesso lavoro, molto dispendioso in termini di tempo e di risorse, a più d’uno la domanda è sorta spontanea: come è possibile che il sistema editoriale possa sostenere economicamente un simile sforzo? Il collega Guido Maurino, ad esempio, ha subito obiettato: “Rimarrò sempre curioso di sapere come tutto ciò sia compatibile con un prodotto commerciale come un articolo, che ha dei costi e dei ricavi“.

Mario Todeschini-Lalli ha replicato che secondo lui il punto, prima che di natura commerciale, è di natura culturale. Sintetizzo, sperando di non sbagliare, il suo pensiero: qualunque testata deve fare delle scelte bilanciando tra autorevolezza, credibilità e quantità. In genere il rapporto tra persone impiegate in funzioni redazionali e numero di item informativi prodotti può essere considerato un parametro di qualità, ma da noi questa cultura manca. Non perché oggi essa costerebbe troppo, ma perchè non c’è mai stata. Anche da noi, ha concluso, c’è la Rai, che fa giornalismo non “commerciale”, ma dove, nonostante le centinaia di giornalisti, meccanismi di verifica come quello esemplificato non esistono.

Risponde Maurino che “lo spunto di riflessione è valido, ma se devo arrivare al paradosso di documentare la data di nascita di un’azienda con il registro della Cciaa… l’impressione è che o mentono sul processo di formazione dell’inchiesta o fanno tre pezzi l’anno.

A questo punto sono intervenuto sostenendo che la questione della difficile applicabilità del modello non è, a mio parere, solo culturale e commerciale. Nel senso che la pur giusta perplessità sulla sostenibilità economica del processo non basta a rendere l’idea della complessità strutturale del problema.
Per essere applicato su ampia scala quel modello necessita a mio avviso di una più ampia sostenibilità intrinseca. Ossia la sussistenza di un equilibrio economico generale all’interno del sistema, che vada oltre all’ovvia capacità di tenere sotto controllo lo stretto rapporto costi/ricavi e si allarghi al metodo.
È del resto una questione, ho precisato, che nel mio piccolo di giornalista freelance puro mi pongo ogni volta che mi trovo a proporre un articolo a un committente. Avendo da un lato per scopo di realizzare il servizio, che è ciò in cui consiste il mio lavoro, ma dall’altro anche l’interesse a prevenire e possibilmente azzerare o almeno ridurre tutte le eccezioni che potrebbero prima o dopo essermi sollevate, traducendosi poi in una cattiva reputazione o in un surplus di lavoro, tendo per riflesso condizionato a fare l’avvocato del diavolo contro me stesso. E in quest’ottica ho strutturato il mio modo di lavorare, di elaborare proposte e di organizzare la mia attività di ricerca.
È però evidente, ho anche sostenuto, che in termini di utilizzo razionale (e utilitaristico) delle risorse questo metodo non è “economico”: né per me, che per default mi sobbarco una mole di fatica spesso non richiesta, né per la testata, che comunque pressochè mai ha le risorse umane e redazionali (oltre alla forma mentale) a cui affidare la cernita del materiale raccolto prima di darmi il via libera.
Se espando tutto ciò dal mio caso personale all’intero sistema – concludevo su FB – arrivo a dire che il modello in parola è tendo a concludere che il modello in parola è inapplicabile da noi soprattutto per ragioni “strutturali”, oltre che culturali”.
Aggiungo che una parte di questo gap può, è e anzi deve essere colmato da quella componente fondamentale della nostra professione che è la natura fiduciaria del rapporto giornalista-redazione-testata. Esso consiste nel fatto che almeno una quota delle verifiche ex ante sulla singola proposta venga assorbito dalla credibilità guadagnata sul campo da chi, la proposta, la fa. Il che certo non esime la redazione dalle sue responsabilità di controllo, ma le allevia.
Questo rapporto necessario, senza dubbio meno sistematico e più etico, ha oggi nel giornalismo italiano una funzione che non può essere sottovalutata.
Il suo progressivo venir meno condurrà fatalmente, come già va conducendo, a un ulteriore declino dell’informazione attraverso un fenomeno a cui sempre più di frequente stiamo assistendo e che, anzi, è ormai l’esperienza pressochè quotidiana di chi lavora nel nostro settore: il lavoro giornalistico affidato a non giornalisti. Per i quali la verifica sarà sempre, anche per ragioni formative, un fattore marginale e la componente commerciale finirà sempre per essere, se non l’unica, la preponderante.