Non per vanità pubblico la mia intervista rilasciata a Georgofili.info, bensì per dare visibilità al corso Odg (3 crediti e iscrizioni aperte sul portale, ma aperto a chiunque) che Aset e Accademia organizzano a Firenze.

 

di GIULIA BARTALOZZI

 

Il prossimo 22 settembre si svolgerà all’Accademia dei Georgofili un evento formativo su “I nodi del giornalismo agroalimentare tra divulgazione e scienza” (qui il programma), organizzato da ASET (Associazione Stampa Enogastroagroalimentare Toscana” in collaborazione con i Georgofili e l’Ordine dei Giornalisti.

 

Ne parliamo con Stefano Tesi, giornalista ASET, che modererà l’incontro.

 

Stefano, da cosa è nata l’esigenza di una specifica opportunità di formazione in campo agroalimentare per i giornalisti?
Da ormai alcuni decenni temi come alimentazione, agricoltura, paesaggio, agroalimentare, cibo, enogastronomia e critica enogastronomica, tutti intrecciati tra loro, hanno trovato nelle cronache giornalistiche, anche generaliste, uno spazio prima sconosciuto. Le ragioni sono note, ma il punto davvero saliente è che l’opinione pubblica mostra un interesse sempre maggiore su questi argomenti e il sistema dell’informazione cerca di assecondare questa domanda. Per motivi lunghi da spiegare, che però gli addetti ai lavori conoscono bene, gli italiani hanno quasi del tutto dimenticato il loro passato rurale e perduto quelle nozioni in materia che, per le generazioni del passato, facevano parte della “cultura generale”. Questo gap culturale coinvolge non solo i lettori ma, ovviamente, anche i giornalisti chiamati a intermediare le notizie. Da qui l’idea di aiutare i colleghi con un corso “di metodo” che offra loro alcuni strumenti per colmare, almeno in parte, questa lacuna.


Che cosa causa, secondo te, le maggiori e più frequenti inesattezze che si leggono o sentono di questi tempi?

Direi che ci sono due concause. La prima è che, quanto più un argomento necessita di approfondimento, tantopiù trattarlo comporta la necessità di conoscenze tecniche specifiche: conoscenze che spesso, per le ragioni spiegate sopra, non ci sono e spingono ad affrontare le cose con una fretta, un’ingenuità o una superficialità che generano topiche, abbagli, leggende metropolitane o vere e proprie sciocchezze. La seconda, conseguente, attinge alla natura intrinsecamente “generica” del lavoro giornalistico: al di là degli stretti specialisti, per forza di cose rari, la trattazione della cronaca è per definizione affidata appunto ai cronisti, chiamati spesso a occuparsi di tutto (e in ciò sta la loro bravura) basandosi essenzialmente su intuito, esperienza, “mestiere”. Di tale bagaglio professionale, però, quasi mai fanno parte anche i temi agricoli e “periagricoli”. Con un ulteriore pericolo: i giornali hanno una catena di controllo e di comando, basta che uno di questi step si inceppi per vanificare qualunque ricerca di accuratezza.

 

Nel composito ventaglio di temi che costituisce il settore agroalimentare (agricoltura, ambiente, alimentazione, agroindustria) ci sono terreni più insidiosi per un giornalista?
Di primo acchito verrebbe da rispondere una cosa tanto ovvia quanto solare: i terreni più scivolosi sono quelli tecnico-scientifici, su cui solo chi ha competenze specifiche è in teoria in grado di scrivere senza il rischio di errori clamorosi. Ma secondo me la realtà è più complessa. Il miglior giornalista è infatti per definizione colui che, sapendo di non sapere, si fa e pone delle domande, ha dei dubbi, cerca le fonti, le confronta, le verifica, rimugina. Qui sta la vera insidia, che è di stretta professionalità giornalistica: chi fa il nostro mestiere non deve mai dare nulla per scontato, in qualunque campo.

 

Volendo dire i peccati senza i peccatori, ti ricordi qualche eclatante fake news in cui ti sei imbattuto nel corso della tua carriera?
Ne potrei citare decine, anche se più di fake news si tratta quasi sempre di topiche legate a ignoranza o, come dicevo, a superficialità o adesione a luoghi comuni. Una delle più belle fu quando scoppiò lo scandalo di un vino che poteva essere prodotto solo con un vitigno e si scoprì che era fatto anche con altri. Andai dal direttore spiegando la clamorosa notizia e lui, in perfetta buona fede, mi rispose: “E ‘mbè? Se ci sono più uve diverse non è meglio?”. Un’altra fu quando un’indagine rivelò che, a causa della polverizzazione fondiaria, erano in aumento le imprese agricole di facciata, dotate cioè di superfici minime e di scarsissima professionalità, quindi di nessuna capacità economica. Non ci fu verso di farlo capire al collega incaricato dell’articolo, che aprì il pezzo con la frase: “Agricoltura, è boom!”.

 

Si può dire che ASET è nata anche con lo scopo di rendere l’informazione del settore agroalimentare più esatta e scientificamente valida?
ASET nasce con lo scopo di sostenere, difendere e sviluppare la professionalità del giornalismo di settore e non solo. Ciò vale a 360° e quindi anche per quanto riguarda la correttezza scientifica. Il nostro del resto è un mestiere difficilissimo, che ha lo scopo di fungere da ponte tra una verità a volte estremamente complessa e l’esigenza di renderla comprensibile, mantenendola però sempre veritiera, alla gente. Non a caso tutti credono che fare il giornalista sia facile, ma poi il giornalista sanno farlo in pochi.