di URANO CUPISTI
Nel 1977 si poteva visitare l’URSS solo aggregandosi ai gruppi organizzati sotto il severo controllo del regime. Ma per viaggiare ero disposto a tutto e così mi intrufolai in una comitiva di compagni fedelissimi al PCI. Fu comunque una bella esperienza, dogana esclusa.
Visitare l’Unione Sovietica negli anni ’70 era piuttosto complicato.
O meglio: le possibilità esistevano, ma si dovevano accettare rigide condizioni. Ad esempio solo visite di gruppo, organizzate da agenzie di viaggio selezionate, visti collettivi ed accompagnatori rigorosamente devoti al “partito”, ossia al Pcus. Occorreva poi adeguarsi a un decalogo comportamentale da seguire alla lettera per non incorrere in spiacevoli inconvenienti.
Decisi di visitare Mosca perché un amico, ben introdotto nel settore giovanile del PCI della mia zona, mi aiutò ad entrare nella lista dei “compagni” scelti per una “visita di studio” nella capitale sovietica. Si trattava di trascorrere nove giorni a Mosca, nove giorni con il distintivo del PCI all’occhiello (che ovviamente era obbligatorio).
A volte penso a cosa non ho fatto nella mia vita pur di viaggiare per il mondo…
“Il marxismo-leninismo punta allo sviluppo del socialismo e alla piena realizzazione del comunismo, in un sistema sociale senza classi con proprietà comune dei mezzi di produzione e piena uguaglianza sociale di tutti i membri della società”. Ecco quanto mi toccò sottoscrivere per essere uno dei diciotto scelti per l’avventura oltrecortina nel paese del “sol dell’avvenir”.
Al momento della partenza del pullman che ci avrebbe portato all’Aeroporto di Fiumicino, mi sembrò di “entrare” nel film “Il compagno Don Camillo” del 1965. Anche noi avevamo l’accompagnatore indottrinatore (il compagno Peppone) ed a me il compito di scettico occulto (Don Camillo).
Canti, inni e l’immancabile “Internazionale” ci accompagnarono per le oltre quattro ore di trasferimento. Infine un Tupolev dell’Aeroflot ci portò, in tre ore e mezzo, all’aeroporto Sheremetyevo, una trentina di chilometri dal centro di Mosca.
Ci vollero quasi altre quattro ore per il ritiro bagagli e le formalità doganali, cioè veri e propri interrogatori. A nulla valsero le bandierine e i distintivi che ostentavamo. Niente calze da donna, niente jeans, niente sigarette americane, niente giornali di moda. Del resto il “decalogo” consegnato dall’Ambasciata di Roma parlava chiaro e tutti noi, nel preparare i bagagli, l’avevamo seguito alla lettera.
Finalmente il via libera, la conoscenza di Vasiliii (con tre i), il funzionario del PCUS che ci accompagnò per tutto il soggiorno, e dell’autista Sasha, anch’esso addetto ai nostri spostamenti. L’Autobus? Un vecchio Paz-672, ovviamente di color rosso con la scritta al vetro итальянская делегация, ovvero “ital’yanskaya delegatsiya” tradotta “delegazione Italiana” con tanto di tricolore.
Il percorso fino al nostro albergo fu scandito dai vari “che meraviglia, che ordine, tutti in fila alle fermate degli autobus“. L’esclamazione vincente fu “guardate compagni, alle fermate ci sono pensiline coperte” (sai che traguardo, pensai tra me e me, in una città dove il sole è un optional, piove spesso e nevica in abbondanza).
I sette giorni effettivi passati a Mosca non furono altro che momenti di propaganda, visite ai musei, ai luoghi più importanti come il Cremlino, la Piazza Rossa, il Mausoleo di Lenin (solo all’esterno), il Teatro Bolscioi e le inevitabili serate con il balletto e l’Opera. La scelta, in nostro onore, cadde su “Tosca” di Giacomo Puccini.
La via Arbat fu percorsa solo in autobus, almeno quattro volte, senza fermarci per non avere contatti con la vita vera dei moscoviti. Solo relazioni con la gioventù del PCUS e funzionari del Partito resi curvi dal peso delle medaglie sul petto.
Riuscii, un pomeriggio, a sgattaiolare dall’albergo in pausa riposo, eludere la ferrea sorveglianza di Vasiliii ed affini e precipitarmi nella vicinissima Piazza Rossa.
Fui subito avvicinato da un giovane che, in spagnolo, mi chiese se avevo bisogno di cambiare moneta. Dollari per rubli a un cambio favorevolissimo. Ne approfittai, seppur con varie manovre ad evitare sguardi sgraditi.
Il tizio però non si fermò al cambio. Voleva pure che gli vendessi le mie scarpe. “E come faccio a ritornare in albergo?”. Nessun problema: era tutto programmato con la complicità di un suo amico, portiere dell’hotel. Che organizzazione!
La mia breve fuga non passò inosservata. Fu lo spione Peppone a redarguirmi di fronte a tutti. E Vasiliii? “Scommetto che sei andato a fotografare nuovamente il picchetto di fronte al Mausoleo”. Lo guardai sorridendo.
Al di là della convivialità sovietica forzata, dei tour obbligati, dei tovarich continui dovuti e imposti dal protocollo, riportai comunque varie impressioni della capitale russa al tempo di Brežnev.
La Piazza Rossa era in effetti splendida, magnifica. La Metropolitana, oltre a essere di gran lunga il mezzo di trasporto migliore tra quelli a disposizione, ci regalò una varietà incredibile nelle sue tante stazioni dove ammirammo marmi, vetrate colorate, dipinti murari, lampadari sgargianti e statue dedicate ai tanti protagonisti della lunga stagione socialista allora in corso. Bella anche la camminata nel Parco Centrale della Cultura e del Tempo Libero Gorky, luogo simbolo della vita moscovita, unico vero punto di aggregazione per tutti, anche perché facilmente controllabile: lì non riuscii ad incrociare gli sguardi di nessuno. Visitammo la Collina di Lenin (oggi ribattezzata Collina dei Passeri), il belvedere di Vorobyovy Gory e quella piattaforma costruita da Stalin: offriva una veduta sulla città effettivamente unica ed era lo sfondo ideale per omologare le classiche foto ricordo matrimoniali. Un obbligo non esplicitato ma solo “consigliato”.
Poi ci fu la “serata ufficiale moscovita“, in un locale posizionato sull’arteria dello shopping (sic!), via Arbat. Aperitivo a base di blini, simili a dei pancake salati serviti con panna acida, salmone affumicato e caviale; golubtsy, involtini di cavolo coperti di panna acida conditi con pomodoro; a seguire i kotlety, polpettine a base di carne di maiale e manzo; quindi la zuppa borsch di barbabietole, con carne e la sempre immancabile panna acida. Piatto principale fu il manzo alla Stroganoff, conosciuto anche da noi. Per dessert il tradizionale syrniki, una pancake fritta con ricotta mescolata a uova, farina e uvetta.
E da bere lo “Champagne del Volga”. Chiamato così in barba ai brevetti internazionali.
Infine, vuoi non brindare all’amicizia italo-russa con la vodka?
Il ritorno fu una vera goduria.
Fummo letteralmente scaricati all’aeroporto, dove ci vollero ben cinque ore per passare la dogana. Le valigie furono completamente rovesciate, subimmo perquisizioni anche nelle scarpe. Rullini, macchine fotografiche e cineprese vennero fatti passare sotto i raggi x che, coerentemente ai voleri del regime socialista, cancellarono tutto. Quindi nessuno di noi potè portare in patria, di ritorno da quel viaggio, una foto o un filmino. Solo una scaltra “compagna”, che si era munita di una Polaroid, riuscì a nascondere alcune istantaneein due libri scritti in russo e inneggianti al capo dei capi di allora, Leonid Brežnev: libri che i doganieri si guardarono bene dal controllare.
Rientrato a casa, comunque non potei poi partecipare all’attivo di sezione: ero presenza indesiderata.