Penalizzati dal paradosso dalla presenza di troppi importanti brand da un lato, da uno spiccato individualismo e da una cronica marginalità dall’altro, i produttori della provincia di Arezzo tentano di recuperare un’immagine che sia anche “territoriale”. Un cammino legittimo, ma che sembra ancora lungo. Anche se i primi passi sono compiuti.
Interessanti (ma ancora troppo “giovani” per fare storia) le nuove esperienze. Troppo “griffati” di se stessi quelli già di successo (e sono tanti). Troppo “antichi” (o sfuocati) tutti gli altri. Tante realtà diverse, insomma, difficili da tenere insieme sotto un unico ombrello, come invece comandano le regole del cosiddetto marketing territoriale di cui in vino è oggi elemento centrale.
Morale: il panorama vinicolo aretino è “spargolo” e sostenerlo con un’immagine unitaria è un’ardua impresa.
Comunicativamente parlando, chi se ne occupa l’intuizione brillante l’ha avuta: visto che Arezzo è terra di orafi, i suoi vini sono stati assimilati a tante singole gemme incastonate in un gioiello composito e variegato. Un mosaico prezioso. Tramutando così in atout, dal punto di vista dialettico, il principale punto debole del territorio, cioè la sua frammentazione: tipologica, geografica, ampelografica, climatica, stilistica, paesaggistica e perfino storica.
Ma dal dire al fare, naturalmente, ce ne corre. E a rendere ancora più difficile il coraggioso tentativo di un gruppo di produttori – promosso dalla locale Strada del Vino e concretizzatosi giorni fa in una kermesse dedicata alla stampa, “Arezzo Terra di Vino” – sta soprattutto il fatto che in questa provincia toscana la viticoltura non è una Cenerentola in cerca di prìncipi. E’ tutt’altro che negletta. Anzi. Ha una sua antica storia (per quello, diciamolo, che vale la storia nell’enologia moderna) e una sua importante attualità. Per niente secondaria: prosperano qui non solo il glorioso Chianti docg (generico o in versione Colli Aretini), per decenni solido e defilato pilastro (sfuso) dell’agricoltura locale, ma vini rari (come il Caberlot del Podere Carnasciale), stelle di prima grandezza dell’enologia italiana, aziende pluripremiate e marchi molto noti sul proscenio internazionale (come Sette Ponti, Il Borro, Petrolo).
Case conosciutissime, appunto, per i loro prodotti o il loro brand. Un brand in cui di solito, quasi sempre direi, il territorio di provenienza è però un optional, o ben che vada qualcosa che resta in secondo piano. Per non dire delle numerose, a volte quasi anarchiche iniziative individuali: non ultimo lo spumante metodo classico fatto col Sangiovese in purezza da Baracchi, a Cortona.
Detto in parole povere, la provincia di Arezzo ha produttori di gran nome, ma poco nome.
Da qui il progetto di rilancio, venuto a traino del progressivo riassetto della mappa enologica provinciale che ha diviso l’area in quattro zone: la doc Cortona, la doc Valdichiana (già Bianco Vergine), la docg Chianti Colli Aretini e la nuova Doc Valdarno di Sopra che, con le sottozone Pratomagno e Pietraviva (ex doc), include ora in un “vascone” inevitabilmente un po’ farraginoso i comuni e i vini di ambedue le sponde del fiume a valle del capoluogo.
Nella degustazione guidata organizzata per l’occasione (a proposito, chapeau per la location: lo Spazio Lebole, raffinata bottega antiquaria in pieno centro città che unisce al fascino dell’ex struttura industriale un ambiente intellettualmente stimolante e affianca all’antiquariato tradizionale il modernariato, l’art decò, i fiori, i gioielli e la bigiotteria) il conduttore Daniele Cernilli ha profuso tutta la sua facondia nel tentativo di far quadrare il cerchio, illustrando, ad esempio, ora la straordinaria vocazione del terroir cortonese alla vinificazione del Syrah o l’unicità di vini come il Galatrona o ancora il citato Caberlot, e ora l’antica tradizione enoica aretina attestata già dal famoso decreto di Cosimo III del 1716 e continuata col glorioso Chianti docg.
Poi però vai a fare gli assaggi alla cieca e le certezze vacillano tutte, tranne una. Cioè quella che avevi prima di cominciare: tante buone cose, alcune ottime eccellenze, ma poca identità. Territoriale e non. Acuita fatalmente dai rigurgiti del massiccio ricorso che, nell’aretino, si è fatto negli ultimi vent’anni e si continua a fare ai vitigni internazionali, con il risultato di una spiccata tendenza alla supertuscanizzazione della produzione e, in generale, a una certa incoerenza. Si potrà eccepire, forzando un po’ i concetti, che proprio in questo consiste l’odierna identità dei vini made in Arezzo, la quale riunisce in sé la tradizione del sangiovese e del “taglio” chiantigiano, il metodo bordolese e la nouvelle vague dei francesi in purezza. E questo è un fatto innegabile.
Alla fine dei conti rimane però ancora molto problematico, acquisita “culturalmente” questa convinzione, farla passare attraverso il palato e tramutarla in un’idea organica di produzione legata al territorio.
La scommessa sta tutta qui.