Fino al 20/9 è di scena ad Arezzo il “Festival dello streetfood” (qui), fenomeno di moda che si presta anche a speculazioni e a facili entusiasmi. Occhio però a non perdere di vista la realtà: di cosa concretamente stiamo parlando?
Ho partecipato ieri ad Arezzo, come presidente dell’Associazione Stampa Enogastroagroalimentare Toscana (Aset), a un non affollatissimo ma interessante convegno sul cibo di strada organizzato nella città toscana a margine della tre giorni, aperta fino a domenica sera, dedicata allo streetfood dall’omonima associazione.
Grazie alla relazione di Stefano Marras, ricercatore associato presso l’Università di Milano Bicocca, ho scoperto ad esempio che perfino la Fao e l’Oms si occupano del fenomeno, tanto da fissarne i paletti: è cibo di strada, secondo le due organizzazioni, tutto ciò che sia prodotto artigianalmente in strada e/o sia consumato in strada. Definizione estensiva che ha fatto ovviamente discutere i presenti.
Ho scoperto anche, dal comunicato stampa, che nel corso degli eventi finora allestiti quest’anno sono stati consumati oltre 45 quintali di patate, oltre 20 mila piadine, 20 quintali di pesce, 10 mila arancine, 800 kg di Pane ca’ Meusa, 400 kg di panelle. Ancora 1.000 kg di paella, 40 quintali di carne argentina e altrettanti di lampredotto. Dalla Puglia sono arrivati più di 40 quintali di bombette e 700 sono i kg di lime per i cocktail “on the road”. Dall’Abruzzo oltre 100 mila arrosticini. Per finire 9.000 panzerotti baresi e 18 quintali di polipo per oltre 8 mila Pucce salentine. Cinquemila le spianate casentinesi con porcini e tartufo toscano, 450 i kg di Pastin, piatto di strada bellunese. Il tutto accompagnato da Birra StreetFood per oltre 9 mila litri.
Ho scoperto infine che il cibo di strada è oggetto di progetti Ue che mirano alla condivisione del sapere su scala comunitaria e puntano alla formazione degli addetti in un’ottica business oriented, nel tentativo di (ri)portare quest’attività fuori dalle secche semplicistiche che il successo, la moda e una certa faciloneria spesso inducono.
Alla fine dei conti, però, il nocciolo della questione mi è sembrato un altro. Quello concettuale.
Ovvero: bisogna parlare di cibo “di” strada, cioè preparato, cotto e mangiato all’aperto, o “da” strada, cioè preparato e cotto altrove, ma assemblato e mangiato all’aperto? O addirittura di cibo “per” strada, cioè di una pietanza che, ovunqua sia cotta o preparata, è adatta al consumo open air?
Presa in sè, la domanda è ovviamente accademica.
Ma diventa terribilmente concreta se si torna sul terreno dei riconoscimenti formali, delle normative e degli interessi economici che essa fatalmente genera.
Anche perchè se chiunque è disposto a stracciarsi le vesti per la conservazione delle tradizioni gastronomiche, dei cibi antichi, delle produzioni di qualità e pertanto, a loro modo, anche espressioni di cultura, occorre aggiungere che non sempre un cibo è buono solo per il fatto di essere di (o da, o per) strada.
Anzi, l’esperienza estranea agli eventi gourmet e al mercato delle eccellenze dimostra spesso l’opposto.
E il fatto che anche chef famosi si stiano avvicinando al “genere” streetfood prova che, alle nostre latitudini, in questo settore è sempre minore la componente sociale e sempre maggiore quella edonistica. Il contrario esatto però di ciò che il cibo di strada rappresenta in ampie parti del pianeta: un modo economico e veloce di alimentarsi in un contesto in cui la strada è il mondo e non semplicemente un luogo da cui si transita.
Insomma, occhio alle banalizzazioni.