Da presunto “cane da guardia del potere” la nostra professione si è diluita in un’entità impalpabile che del cane ha bisogno sì, ma per badare a se stessa, mentre una rassegnata “minoranza silenziosa” assiste senza muovere un dito.

 

Ho sempre sopportato poco la retorica del giornalismo militante, del “cane da guardia del potere”, del cronista a prescindere senza macchia e senza paura, del giornalista-vendicatore che insegue i casi sempre e solo per questioni di principio. Anzi, l’idea di un “militante della professione” mi inquieta un po’, convinto come sono che in questo mestiere ci vogliano soprattutto onestà intellettuale (e quindi terzietà), capacità di analisi (e quindi lucidità), apriorismo del dubbio (e quindi la volontà di mettere in discussione anche le proprie certezze, senza mai dare nulla per scontato), sobrietà (e quindi tendenziale allergia ai riflettori).

Fatta questa premessa, occorre dire che il giornalismo italiano, o per meglio dire la categoria giornalistica, ha a tal punto capovolto la propria identità da avere ormai bisogno, prima di tutto, di fare da cane da guardia di se stessa e di guardarsi in casa. Sempre ammesso che la degenerazione non sia arrivata così in là da tradursi in una sostanziale mutazione della professione.

Per una serie di concause abbastanza complesse, ma limpide, quello che si diceva essere il lavoro più bello del mondo è divenuto infatti quasi l’opposto di sè medesimo.

E’ il giornalismo dell’approssimazione, del “lo dice il comunicato stampa“, di chi anzichè narratore di fatti veri diventa portavoce di fatti alterati o addomesticati, di quelli a cui non sono dati i mezzi per lavorare ma invece di smettere si arrangiano con la compiacenza, di quelli a cui non si è insegnato a fare il giornalista ma lo sono diventati lo stesso e nessuno li ferma (anzi, sono diventati maggioranza e spadroneggiano, fanno opinione e si pongono a modelli di un modo “nuovo” di fare informazione), di quelli che pensano si tratti di un hobby o di un mezzo per entrare gratis da qualche parte.

E’ anche, bisogna ammetterlo, il giornalismo di una “minoranza silenziosa” ma non troppo sparuta, che a quanto sopra assiste con sconforto da anni e tuttavia per quieto vivere, o grettezza, o menefreghismo o codardia o superficialità o tutte queste cose insieme lascia correre, finge di non vedere, critica ma non agisce, si defila o semplicemente tace.

E spiace dire che tra costoro si annidano moltissimi colleghi eccellenti per capacità e spessore intellettuale.

Anche se a volte mi chiedo se alla fine non abbiano ragione loro e se questi atteggiamenti non siano ormai solo il frutto di una rassegnata presa d’atto. Se quindi anche tutta l’enorme sovrastruttura professionale esistente (Ordine, sindacato, associazioni, fondazioni dedicate) non sia altro che un simulacro, un impalpabile infingimento, un’ammuina di qualcosa che si è dissolto. E se, quindi, gli ottimi esempi di giornalismo, e per fortuna ce ne sono, che ancora si vedono qua e là non siano soltanto i reduci sparsi e sbandati di un esercito che non c’è più, trasformatosi da presunto cane inseguitore del potere a preda inseguita dai cani, incapace di badare a se stessa.

Se qualcuno mi volesse dare del disfattista o di catastrofista, prima di farlo guardi con un minimo di obbiettività a ciò che accade quotidianamente nel nostro mondo.

Chi avesse idee, proposte o ricette per un rilancio è pregato invece di tirarle fuori presto, perchè secondo me siamo all’ammazzacaffè.

 

PS: c’è chi osserverà, a ragione, che le responsabilità non sono tutte della categoria e che è l’intero sistema editoriale italiano a essere in coma profondo, che i giornali intesi come mezzi di informazione annaspano, etc. Verissimo. La nostra inerzia, però, mi pare ingiustificabile lo stesso.