Il polverone sollevato dalla popolare trasmissione sul mondo del vino italiano non stupisce: nè nel metodo, nè nelle intenzioni, nè nei bersagli: ma far soffiare il vento del moralismo sul fuoco dell’ambiguità produce solo cenere.

 

Sono sbalordito, ma anche no, dal polverone sollevato dalla puntata sul vino di Report, un polverone che ha annebbiato la mente di quasi tutti. E a dir la verità non solo quella.

Ha appannato prima di tutto l’immagine della trasmissione, del resto non nuova a sparate nel mucchio e a giochi di ambiguità moralistica destinati forse a fare spettacolo, ma certo non informazione.

Ha poi confuso le idee di molti colleghi giornalisti: chi ne sa meno di vino ne è uscito più disorientato di prima, lasciandosi andare a varie amenità; chi ne sa di più, invece, è spesso salito automaticamente sulle barricate, come per un riflesso condizionato, a difendere il settore senza se e senza ma, prescindendo da qualsiasi argomento e dimenticando i propri principali doveri, ossia il dubbio e la terzietà. Nemmeno fosse l’ufficio stampa dell’intera categoria dei produttori. I quali da parte loro non sono di certo tutti criminali, ma nemmeno tutti santi né benefattori.

Al di là delle accuse televisive subite, del resto, non ne sono usciti bene nemmeno questi ultimi: un po’ per essere caduti nella maliziosa trappola di Report e rilasciando interviste che, conoscendo il pregresso, era sicuro che sarebbero state tagliuzzate e decontestualizzate; un po’ per essere insorti negando a priori l’esistenza nel sistema di opacità e falle che, viceversa, innegabilmente esistono e non si può fingere il contrario. La loro reazione è stata dunque comprensibile, ma non pare li abbia indotti a farsi anche qualche domanda.

L’opinione pubblica, da parte sua, ha abdicato pure stavolta a qualsiasi autonomia di pensiero, dividendosi come al solito in fazioni di militanti e facendo dei produttori di vino ora dei carnefici e ora delle vittime, in un’infantile ottica manichea dove ci sono solo il bene e il male, quando è lampante il contrario.

Report insomma, in buona o in malafede, anziché fare chiarezza ha spalmato una fitta corte di nebbia sulla verità dei fatti, intorbidando le acque nel nome dell’audience, facendo insinuazioni senza prove ma tirando fuori al massimo qualche indizio tutto da verificare, inducendo a pensare che scaltrezza commerciale ed imbroglio siano sullo stesso piano e che trasparenza e qualità siano la stessa cosa. Su questo fomentando il moralismo di un popolo tanto bue quanto, di conseguenza, incline alla facile indignazione.

Nessun accenno ad esempio, da parte di Ranucci e soci, alla fondamentale differenza tra qualità legale e qualità sostanziale di un prodotto, per la quale forse sarebbe stato più che opportuno spendere qualche parola. E nessun accenno all’evidenza che in qualsiasi comparto produttivo o contesto nulla è per definizione lineare, mentre tutto è composito e complesso e quindi, prima di essere analizzato, va conosciuto bene.

Dipingere quindi il lecito per illecito, l’illecito per reato, le eccezioni per la regola e la mancanza di trasparenza come prova lampante dell’esistenza di qualcosa di losco ed oscuro sono sintomi di una malafede che è troppo generoso tentare di ridurre a dabbenaggine: Report ha volutamente fatto di ogni erba un fascio, sapendo che di ciò l’audience avrebbe preso il peggio.

Infatti così è accaduto.

Non a caso, anziché andare a leggere di qua i peana dei colpevolisti a priori e di là i pianti cointeressati di colleghi e vignaioli, sono andato sui social e vedere i commenti della gente comune, dei consumatori più o meno evoluti e di persone che so non essere esperte di vino, ma sono accorte, ragionevoli, usate al mondo.

Il risultato è stato desolante.

C’è chi, sull’onda dell’emotività sobillata dalla trasmissione, ha dichiarato che non avrebbe mai più bevuto un vino superiore ai 14° perché “allungato con l’alcol” (l’MCR), c’è chi senza aver mai messo piede in una cantina, né in vigna, né in campagna ha preso a predicare un ritorno al mitico “vino del contadino” e al piccolo produttore “naturale” (te pareva), della cui esistenza aveva peraltro appreso non dal bicchiere ma dai social. C’è chi non distingue tra la soda caustica e l’aranciata, ma a gran voce ha reclamato la pubblicazione obbligatoria in etichetta di una lista di “ingredienti” che però non avrebbe mai saputo leggere, ignorando che lo stronzio dell’acqua minerale è un elemento e non un residuo fecale. E chi ha strepitato per il ricorso a “veleni” senza nemmeno andare su Google a vedere di che “veleno” si trattasse (la bentonite, tanto per citarne qualcuno).

Non uno, dico uno, che si sia fatto qualche domanda più generale sulle tecnologie regolarmente e lecitamente adottate in tutto il mondo dall’industria alimentare (i gelati, il confezionato, le bibite, i conservanti, i coloranti, le verdure in busta, la frutta “lucidata”), la quale certamente non fa beneficenza e mira a massimizzare i profitti, ma di sicuro non è neanche così stupida da lasciare chiunque violare le regole impunemente al punto di suicidarsi sotto il profilo commerciale e della reputazione. Anche perchè chi sgarra (e c’è chi sgarra), se scoperto danneggia non solo se stesso, ma tutti.

E così ecco l’indignazione popolare davanti a Report e alla scoperta dell’acqua calda: e cioè che la chimica (quella vera, non del “piccolo chimico”), ben lungi dall’essere il male assoluto, è parte integrante e a volte pure virtuosa non solo di ciò che mangiamo e beviamo tutti i giorni, ma anche del prezzo che per esso paghiamo.

Un quadro avvilente, che spiega sia perchè una trasmissione a tesi, ossia uno show come Report, faccia opinione, sia perché, nonostante le disavventure, la Ferragni continui ad avere milioni di seguaci, sia perché tutti, ora, si indignino sul vino mentre in GDO comprano vagoni di pandori industriali senza chiedersi o capire cosa ci sia dentro, nè come mai costino poco quanto costano, e infine perchè ci sia così tanta gente che, sull’altra sponda, è convinta che a un prezzo più alto corrisponda automaticamente una maggiore qualità, nei pandori come nel vino. Illusi.