Globalizzazione e omologazione stanno riuscendo dove nemmeno i regimi erano finora riusciti: la neutralizzazione della stampa. Trasformata, coi cavalli di Troia dei social e dei dilettanti, da fonte d’informazione a mero veicolo di reclame.

 

Faccio il giornalista dal 1986.

È un lavoro che mi ha dato molte soddisfazioni: ho scritto per giornali importanti, con direttori importanti, su argomenti importanti. Mi sono occupato di tutto, ampliando enormemente il campo delle mie conoscenze e girando, per lavoro e non per turismo, tutto il mondo.
L’ho sempre fatto, per scelta radicale, da libero professionista, quindi in totale libertà. Ho vissuto dentro e fuori le redazioni, con tanti ruoli diversi, in media diversi. Li ho sperimentati praticamente tutti. Ho insegnato il mestiere ai giovani nelle scuole di giornalismo e ne ho rallevato qualcuno divenuto bravissimo.
Forse però è arrivato il momento di dire basta.
Per stanchezza, mancanza di energie? No, quelle fortunatamente ci sarebbero ancora.
Ma per totale disillusione.
Le ragioni della quale sono due.
Una di tipo economico, su cui mi sono dilungato infinite volte e che non merita ripetizioni. Basta una semplice constatazione: questo non è più un lavoro, ma un’attività che si può esercitare solo per hobby.
La seconda è più profonda e complessa: la professione giornalistica si sta dissolvendo nella sua stessa funzione. Ed avrà vita breve. Quindi tanto vale scendere dal treno per tempo.
La stanno uccidendo l’omologazione e il marketing.
Il giornalismo produce infatti, per definizione, informazioni. Ovverosia notizie vere e verificate, terze, indipendenti, pacate, ponderate, approfondite, scritte possibilmente bene e comunque con ricchezza di argomenti.
Un prodotto questo, ahinoi, che oggi non interessa più a nessuno, in un mondo omologato dove tutto, anche la conoscenza, è oggetto non di riflessione, ma di consumo, meglio se acritico o ideologico. E quindi soggetto alle regole del commercio, non a quelle della deontologia. Il lettore si è assuefatto, è stato a poco a poco orientato in questa direzione. E ora reagisce come un cane di Pavlov: assecondando il sistema che lo tiene in pugno.
Potrei fare miliardi di esempi, prendo l’ultimo.
Ho appena letto, su un celebre mensile, un servizio sulla mia città. Un miserevole concentrato di marchette sotto dettatura, secrete oltretutto senza capo né coda, senza la minima logica. Un grottesco, distratto copiaincolla di veline, zeppo di solecismi, di abbagli, di superficialità. Dove si tentano di spacciare per buone, nel nome dello sponsor da soddisfare, informazioni surreali.
In altri tempi, chiunque si sarebbe vergognato a proporre a un giornale, anche minore, un simile pastrocchio. Figuriamoci a pubblicarlo.
Oggi una schifezza simile trova invece pacifica ospitalità anche sulla stampa che conta, con l’acquiescenza o la complicità di redazioni cresciute evidentemente nella stessa temperie da “tutti a casa” dell’estensore del pezzo, quindi incapaci di cogliere le differenze. Dilettante il primo, commercianti i secondi. Così il cerchio si chiude.
E non mi si dica che è sempre successo: una volta poteva essere l’eccezione, non la regola.
Ecco perché è l’ora di smettere.