Un sondaggio sul rapporto tra giornalisti e uffici stampa rivela a sorpresa che la conferenza stampa è ancora uno strumento giudicato utile dai colleghi. Non per i contenuti, ma per l’occasione che essa rappresenta in sè: un dato su cui meditare.

 

L’Eco della Stampa e Mediaddress, la banca dati dei giornalisti, hanno da poco pubblicato (qui) i risultati dell’indagine varata nell’aprile scorso tra i colleghi recensiti dalla stessa Mediaddress (circa 400 interviste) su “lo stato della relazione tra giornalisti e uffici stampa“.

Dall’analisi delle risposte, dicono, emergono spunti estremamente interessanti.

Ne convengo. Forse, però, non solo quelli che sembrano.

I risultati sono infatti senza dubbio attendibili, ma in gran parte anche prevedibili: poco graditi i comunicati stampa massivi e quelli inviati per canali diversi dall’email, anche se poi il comunicato è utilizzato di riffa o di raffa da quasi il 90% del campione, mentre è appena il 38,8% che riceve da 50 a oltre 100 comunicati al giorno (quindi, come al solito, sono in minoranza: il 53,8% sta tra 10 e 50), l’83,2% dei quali finisce però nel cestino in quanto giudicato, in base al titolo o al contenuto, “non interessante” (appena il 6% dei partecipanti li dichiara infatti “esaustivi“).

Circa il 75% degli intervistati dichiara inoltre di essere interessato ad uno strumento che permetta di aggregare i comunicati stampa e di poterli organizzare secondo i propri interessi, anche se meno di 1 su 5 dichiara di aver utilizzato aggregatori in passato: “Lo strumento ideale  – si precisa – dovrebbe comprendere un calendario delle conferenze  stampa, i press kit aziendali ed un database dei contatti dei capi uffici stampa di enti, aziende e istituzioni“. Eh, magari…

Il primo dato realmente degno di attenzione arriva invece a pagina 7 del rapporto, quella dedicata a “la resilienza della conferenza stampa“: il 42,9% degli intervistati dichiara di frequentarle “abbastanza” e il 45,9% dei medesimi addirittura “spesso“, per un totale di gradimento medio-alto dell’88,6%. Ciò è già abbastanza sorprendente in tempi di apparentemente comode teleconferenze e di “remoto”.

Lo è molto di più se è verace la nota a latere della tabella: “Per oltre 3 giornalisti su 4 utili le conferenze stampa rimangono occasioni di incontro e networking“.

Eccoci all’acqua: al netto dell’ineliminabile ma minoritaria quota dei professionisti del pasticcino e dei cacciatori di penne a sfera, mi pare infatti altamente significativo che i giornalisti frequentino le conferenze stampa anche per incontrarsi, scambiare idee, confrontarsi a prescindere dallo stretto oggetto della convocazione. Si tratta di un ritratto realistico e abbastanza impietoso di due situazioni facilmente tangibili per chi frequenta l’ambiente: da un lato la tendenziale “solitudine” dei giornalisti, spesso scambiata per individualismo, dall’altro la necessità di “conoscersi” in un contesto di lavoro in cui spesso la firma non ha un volto, una fisiognomica, una voce, un carattere.

Ma il dato rivela anche, anzi direi soprattutto, un’esigenza ulteriore. Quella di frequentarsi, che a me pare quanto di più giornalistico possa esistere in termini di relazioni interpersonali tra chi condivide lo stesso lavoro. E che trova nel networking l’espressione perfetta per riflettere il bisogno ora di interfacciarsi, ora di fare categoria e ora anche di sentire di farne parte, visto che tutti ne parlano ma alla fine se ne sa poco, troppo poco, al di fuori delle asfittiche prospettive del proprio orticello professionale.

Emerge insomma, sebbene in modo indiretto, la necessità di avere occasioni per costruirsi una coscienza, come si sarebbe detto in altri tempi, e una consapevolezza.

Un elemento, quest’ultimo, su cui le nostre istituzioni giornalistiche – tendenzialmente, storicamente e strutturalmente molto lontane dalla base – dovrebbero secondo me riflettere con attenzione prima di perdere definitivamente la bussola.