E’ scomparso quasi nell’indifferenza generale. E’ stato un gran giornalista, un viaggiatore, un lettore e soprattutto un amico. Un romantico, un po’ casinista. Una mente acuta e un po’ solitaria.

 

Maledetto digitale, che hai condannato ai cassetti dimenticati le vecchie foto cartacee di cui già prima era difficile rammentare l’ubicazione.

E così ora, caro Massimo, dopo mezza giornata di inutili ricerche, devo accontentarmi di pubblicare quest’immagine minuscola e sgranata, presa dal tuo profilo FB. Peraltro l’unica che ti ritrae.

Ma che in qualche modo, lo devo ammettere, lo fa alla perfezione: un po’ defilato, un po’ accigliato, in mezzo a una specie di selva esotica ove amavi nasconderti, o viaggiare in cerca di storie da raccontare.

Ci siamo conosciuti tardi, è vero. Non abbastanza però: nemmeno quarantenne io, poco più che cinquantenne tu. Ambedue toscani, disincantati e ironici fino alla strafottenza. Ci piaceva leggere e scrivere. Impossibile non restarsi simpatici. E infatti divenimmo amici. Che risate, che meleggiature. Tu sempre alle prese con la tua vita disordinata, le decisioni “definitive” perennemente e puntualmente capovolte, la spola tra Milano e la Toscana, i traslochi con gli scatoloni pieni di libri. I ragionamenti sulla professione, tu molto più romantico di me: fino al punto, sulla soglia dei sessanta, da dimetterti – nello sconcerto generale – dal tuo posto con stipendio sicuro da inviato per “cominciare a fare il freelance“. Mal te ne incolse e mai potesti accusarmi di non avertelo detto prima.

Eppure la libertà vera o presunta del libero professionista ti affascinava. L’idea un po’ bohemienne di sapersi reinventare ogni volta, che era una sorta di tua cifra esistenziale

Quando nel 2005 ti chiamarono a dirigere l’IFG, la allora prestigiosa “Scuola dell’Ordine” dei Giornalisti a Milano (ammettiamolo: nulla più di te era lontano da quell’ambiente burocratico e correntizio, eppure in qualche modo i tuoi outfit con giacche di velluto e tweed erano perfetti per la figura di un carismatico rettore un po’ british), non ci pensasti due volte a offrirmi la docenza per la libera professione perchè, e avevi visto giusto, era in quella direzione che stava andando il nostro lavoro. Già in declino, sì, ma allora forse “ancora in grado“, come avrebbe detto Federigo Tozzi, “di reggere lo sforzo“. Io ovviamente accettai e fu una bella, seppure inutile, avventura. E comunque anche per te durò poco. Conoscendoti, perfino troppo.

E quell’agosto di vent’anni fa passato a casa mia in campagna, alla buona, con un caldo infernale, le chiacchierate col tuo vocione e le risate sulla storia dei bancari-amanti senesi, con lei legata al letto e lui mascherato da Batman che cade dal cassettone e sviene?

Ci eravamo conosciuti a San Pietroburgo, ai tempi eroici dell’associazionismo giornalistico. Era l’inverno del ’99, mi pare, c’era la neve e faceva un freddo becco. Entriamo all’Hermitage e a tutti e due, nello stesso momento, viene in mente che una certa sala ci era familiare. Furono le prime parole che ci scambiammo. Ma fu a me che per primo venne in mente che lì avevano girato una scena dell’Amleto con Kenneth Branagh. “Cazzo“, dicesti, “è vero“. Da lì in poi fu tutto un darsi di gomito.

Poi, finito il mondo dei viaggi e del giornalismo di viaggio, ci siamo sentiti con sempre meno frequenza. Tu però non omettevi mai di aggiornarmi, con cadenza biennale, delle tue irrevocabili scelte di vita.

Ti piacevano l’architettura e la fotografia. Più di recente sembrava seguissi solo quella, o almeno così pareva da tuo profilo FB. Più volte mi è venuta voglia di chiamarti e poi, scemo, non l’ho fatto.

Mi arriva un messaggio: è morto Massimo. Ti hanno seppellito ieri, io ti scrivo solo oggi e credo che ancora non lo sappia quasi nessuno.

Se ritrovo quella vecchia foto la posto sul tuo profilo, sperando che non lo chiudano.

Adieu.