Un libro che parla di antiche fortificazione e, con esse, delle storie che le hanno accompagnate. Un risveglio estivo troppo precoce. Un viaggio, tra fantasia e memoria fotografica, nel passato remoto della tua città. Scherzi di un’alba di luglio.

Era già passata qualche settimana da quando l’autore mi aveva lasciato il volume presso la segreteria di un circolo in pieno centro, per me difficilissimo da raggiungere visti gli orari e le mie scarse frequentazioni della città. E quindi un po’ dell’interesse si era affievolito.
Così, quando ieri sera sono finalmente venuto in possesso del libro, tornato a casa tardi l’ho appoggiato sulla scrivania senza neppure toglierlo dalla busta che lo conteneva, intimamente convinto che ci sarebbe restato qualche giorno ancora.
Invece, miracoli del caldo e dell’insonnia cronica, stamattina all’alba mi sono alzato. Nella casa immersa nel silenzio ho creato un bel fresco attraverso abili giochi di spifferi. Ho aperto l’involucro e ho tirato fuori questo “Fortificare con arte: mura, porte e fortezze di Siena nella storia” (a cura di Ettore Pellegrini, Betti Editore, 240 pagine, 40 euro).
Un libro tecnico, per specialisti di storia o di architettura, si direbbe. Invece no. Un libro per eruditi, piuttosto. Per cultori della senesità, senza dubbio. Categorie a nessuna delle quali io, però, appartengo.
Eppure la lettura mi ha assorbito subito, come un risucchio. A tal punto che, quando ho alzato gli occhi dal volume, mi sono accorto con stupore che era quasi mezzogiorno.
E’ vero, la mia passione per le vicende storiche delle architetture non è un mistero. Mi piace moltissimo sapere e documentarmi sulla genesi urbanistica delle città, dei loro palazzi, della viabilità antica e delle loro interrelazioni, nella dinamica ameboide con cui, come un organismo vivo, le comunità e il loro costruito si sono espanse e contratte nei secoli. Ed è altrettanto vero che, da conoscitore dei luoghi, mi era particolarmente facile seguire mentalmente il filo degli spostamenti, degli snodi, delle vicende.
Ciononostante, immergermi nella ricostruzione della Siena etrusca e romana, riconoscere o cercare nella memoria visiva i lacerti murari o i mille segni menzionati dagli autori, sui quali magari tante altre volte mi ero senza successo interrogato passeggiando per le strade, attraversare i secoli bui seguendo il filo delle diverse cerchia e dei tanti interrogativi ad esse legati, seguire il ragionamento filologico che conduce all’individuazione delle antiche porte attraverso la rilettura dell’Ordo Officiorum Ecclesiae Senensis (il codice liturgico che nel medioevo regolamentava le celebrazioni religiose cittadine), mi ha completamente conquistato, accompagnandomi in un viaggio fantastico a cavallo fra storia e fantasia, immaginazione e documenti.
Non da meno è stata la lettura, in un percorso random, di quel vero e proprio romanzo storico che racconta la vicenda del clamoroso ribaltone che, a metà del ‘500, condusse la Repubblica di Siena a tradire, tradita, lo storico alleato imperiale per legare le proprie sorti, rese effimere dai colpi di coda della Grande Storia, a favore del re di Francia Enrico II, imboccando la china finale di un declino politico, sociale e economico cominciato molto tempo prima e protrattosi, forse (ma ciò è tipicamente e forse unicamente senese), ben oltre i suoi ragionevoli limiti temporali.
Eventi tutti intimamente intrecciati con l’urbanistica e l’architettura della città, in un susseguirsi osmotico di costruzioni e demolizioni, adeguamenti e distruzioni, tra ambasciatori e governatori, consorterie e condottieri, irredentisti e doppiogiochisti, fiorentini e saraceni. Ed eventi i cui segni, nonostante il tempo trascorso, si sono qua e là mantenuti per effetto di quel miracoloso effetto-cristallizzazione che connota le identità più chiuse e gelose, profonde studiose di se stesse: sempre in bilico tra l’amore incondizionato e l’autocompiacimento più cieco.
E così ho perso il conto di quante siano state, ad esempio, le porte di Siena, tra quelle esistenti, quella tamponate, quelle scomparse, quelle perdute. Ho finalmente individuato il cardo romano, senza tuttavia rimanere del tutto convinto dall’individuazione del decumano. Ho compreso la ragione di certi toponimi e la loro stupefacente antichità. Ho letto infine che, se non ho capito male, la Porta del Cassero non si chiamava così perchè dava accesso alla rocca dell’insediamento più antico, ma perchè l’apertura era sormontata da un “simbolo fallico in terracotta”. Possibile?
Letture da sabato mattina, nate distratte e destinate invece a restare nella memoria a lungo.