di URANO CUPISTI
Trovai un paese che, rispetto al mio viaggio di sedici anni prima, stava cambiando radicalmente e velocemente. Provai la nuova, incerta modernità dei capsule hotel e il piacere della tradizione scottandomi le dita sulla piastra per non usare le bacchette.

 

Avevo già “assaggiato” Tokio e dintorni nel 1964, durante uno dei miei precoci viaggi col babbo. Tornarci da solo e da adulto, zaino in spalla e anche tanta voglia di allontanarmi dalla capitale, fu però tutta un’altra cosa. Era il 1980.

La città la trovai, ovviamente, parecchio diversa. Molto più tecnologica, prima di tutto, rispetto a sedici anni prima. La Ginza con le donne in kimono erano ormai un lontano ricordo. Mi imbattei anzi in uno stile di vita frenetico che mi sbalordì.

Volli subito provare l’ebbrezza di quelle novità, a cominciare dall’emozione di una notte nell’unico capsule hotel esistente allora.

I capsule hotel, anche oggi quasi sconosciuti nel mondo occidentale, erano nati un anno prima ad Osaka ed erano ritenuti allora molto “di tendenza“. Si sono diffusi poi a macchia d’olio nel paese, offrendo in effetti un servizio perfetto per l’imperante vita“mordi e fuggi” nipponica.

Si tratta di strutture ricettive (chiamarli hotel era ed è un eufemismo) che, al posto delle normali stanze, dispongono di loculi piccolissimi, detti non a caso “capsule”, al cui interno lo spazio è minimo. Minimo al punto che l’unica cosa possibile è sdraiarsi e dormire. A patto di riuscirci, si capisce. La mia misurava 2 metri di lunghezza, uno di larghezza e poco più di un metro di altezza. Ovvio che il bagno era in comune e la privacy affidata ad una tendina. Abbondava però una colonna sonora di russamenti e rumori corporali di varia natura. Un’emozione “da poco”, si direbbe: la pagai 20 dollari.

Il giorno dopo, rilassato come solo una notte nella capsula può consentire, mi concessi un breve giro nella Ginza per acquistare un po’ di tecnologia giapponese di consumo e i biglietti per il Shinkansen,  il treno ad alta velocità detto anche bullet train, ossia il treno-proiettile. Fu oggettivamente sbalorditivo viaggiare a 300 kmh per uno che, come me, era avvezzo alla linea Firenze-Lucca-Viareggio con ancora le mitiche carrozze di legno, già terza classe.

Il mio programma prevedeva di raggiungere Nagoya.

Tutti gli amici che erano stati in Giappone avevano sistematicamente scartato Nagoya, secondo loro città portuale insignificante. Dalle mie letture era emerso però che ci avevano costruito una “città sotterranea”. Luogo affascinante che non potevo lasciarmi scappare. Si rivelò piena di negozi, negozietti, ristoranti, panetterie e caffè di ogni tipo, l’ideale per trovarci riifugio quando piove e spendere yen a valanghe. Come in effetti accadde.

Da vedere c’era anche l’antico castello, che al momento della mia visita era ancora in ristrutturazione per i danni subiti durante la seconda guerra mondiale, ma nonostante il cantiere mi colpì per il suo piglio da dominatore. Per ricordo comprai oggetti che oggi, a loro volta, sono dei souvenir: le cartoline illustrate.

Con un autobus di linea raggiunsi quindi Ise e Toba

Ise è la sede del più importante santuario shintoista del Giappone, ovvero Gran Santuario. La cosa che più mi stupì di questo luogo fu sapere (non è una leggenda) che ogni 20 anni l’edificio principale, costruito interamente in legno, demolito e ricostruito in un’area subito adiacente, mantenendo la stessa identica struttura e forma della precedente ed utilizzando gli stessi materiali di costruzione, salvo quelli deperibili. Questo rituale prende il nome di Shikinen Sengu e necessita di circa 8 anni per essere completato. Il primo Shikinen Sengu risale al 690, il prossimo è previsto nel 2033.

Toba, a pochi km da Ise, è nota principalmente per essere il primo luogo al mondo dove si è riusciti ad allevare le ostriche per la produzione di perle. La Mikimoto Pearl Island è considerata il simbolo di Toba. L’isolotto è oggi un parco a tema, la Disneyland delle Perle, con innumerevoli negozi, musei, ristoranti e l’osservare una dimostrazione del lavoro delle antiche “donne del mare”: le ama.  Vestite con una tunica bianca e dotate di maschere sub, si immergevano per prendere le ostriche, inserire tra le valve quello che sarebbe stato il nuovo nucleo perlifero e riposizionarle sui fondali. Già nel 1980 erano state sostituite da tecniche più moderne.

Tra Ise e Toba si trova il Meoto Iwa, la coppia di scogli che è uno degli emblemi del Giappone, nonchè oggetto costante di foto spettacolari che oggi si direbbero “instagrammabili“. Le due rocce legate tra loro da una shimenawa lunga circa 35 metri, ossia una sacra corda shintoista in paglia di riso, che rappresenta il passaggio tra il mondo terreno e quello ultraterreno.

A Kyoto rimasi invece quattro giorni, visitando a tappeto i luoghi di maggior interesse. Fu una girandola di templi, scalinate, percorsi già allora inseriti in un bailamme turistico. Kinkakuji, Ryoanji, Ninnaji , Arashiyama, Daitokuji, Giardino botanico, Palazzo Imperiale, Higashihonganji, Toji, Ginkakuji, passeggiata del filosofo, Gion, Kiyomizudera, Castello Nijo, Nishiki Market, Teramachi, Fushimi Inari, Pontocho. E pensare, dissi tra me e me, che Kyoto era nella lista delle città da colpire con l’atomica e risparmiata solo all’ultimo momento per Hiroshima.

Di quella città mi porto ancora dentro il Fushimi Inari, il più importante di parecchie migliaia di santuari dedicati a Inari, il dio del riso, con quel sentiero che inizia con due fitti e paralleli filari di porte chiamati Senbon Torij. L’intero percorso lo si compie mediamente in tre ore, ma io ce ne misi sei per via dele mie continue soste nei ristorantini lungo il percorso, coi piatti di inari sushi e ekitsune udon con pezzi di tofu fritto. Mi parvero una bontà, forse anche perchè lì non si trovava altro.

Fu poi la volta di Hiroshima, con Nagasaki tristemente famosa per essere stata il bersaglio della bomba atomica americana sganciata nel 1945. Ho ovviamente visitato il Parco della memoria e il Museo della pace. Il simbolo della città resta l’A-Bomb Dome, uno dei pochi edifici rimasti in piedi dopo lo scoppio.

Ma ad Hiroshima ero arrivato anche per visitare  “Miyajima”, letteralmente l’“isola del santuario”, conosciuto in tutto il mondo per il suo iconico torii “galleggiante”. Il santuario e il suo portone sono unici per essere costruiti sull’acqua, quindi in apparenza galleggianti nel mare durante l’alta marea. Durante l’acqua bassa riusci ad avvicinarmi al torij. Lo trovai immenso, smisurato, colossale. E al tramonto, con l’acqua alta, unico e davvero incomparabile.

Conclusi il mio viaggio a Osaka, che nel 1980 era un cantiere a cielo aperto, la città del futuro. Mi rifugiai nel movimentato quartiere di Shinsekai alla ricerca del Giappone più tradizionale, che vedevo andar scomparendo velocemente sotto i miei stessi occhi. E per cena scelsi quindi un ristorante tipico locale, di quelli dove ti devi sedere in terra con le gambe incrociate e le posate europee sono bandite. Così trovai il menu scritto sul muro e solo in giapponese. Per sbagliare il meno possibile mangiai quello che avevano ordinato al tavolo a fianco, da cuocere sulla piastra rovente. Solo che loro usavano le bacchette, io invece dovetti usare le dita. Risultato: polpastrelli ustionati.

Ecco il mio Giappone del 1980, un ricordo “bruciante”!