di URANO CUPISTI
La Farnesina mi aveva avvertito: pericoli e imprevisti, tanti. Ovviamente partii lo stesso e fu un’avventura bellissima tra aerei-carretta, leggende maya, laghi indimenticabili e fuochi artificiali. Che però, ops!, erano gli spari della guerriglia…

 

Tutto pareva remare contro a quel viaggio, compresi i pareri e i consigli della gente su come arrivarci e se fosse opportuno arrivarci. Compreso l’ufficio per la sicurezza dei viaggiatori della Farnesina.

Non esistono voli diretti, deve cambiare aereo due o anche tre volte, nessuna tariffa agevolata” e così via.

Alla fine, però, ramite il tam-tam tra viaggiatori riuscii a mettere insieme un po’ di tratte e di tariffe “strane” che mi portarono a Guatemala City in appena quattro tappe, solo un po’ contorte: Roma-Varsavia (linee aeree polacche, la LOT), stop di otto ore in aeroporto, poi volo Varsavia-New York, sempre con la LOT, stop di sei ore in aeroporto, quindi volo AeroMexico New York-Città del Messico e, lì, coincidenza dopo due ore per Guatemala City con la “mitica” linea guatemalteca Avianca, soprannominata in quel tempo “las papayas voladoras“, ossia i papaya volanti. Insomma tutto un programma.

“Se comunque decidesse di andare – mi avevano anche detto alla Farnesina – si ricordi che…”  e via con una lista di cose “sconsigliate”. Ne riporto solo alcune: evitate in generale di viaggiare da soli; non portare con sè oggetti di valore tipo gioielli, orologi e macchine fotografiche; non portarsi mai dietro troppo contante.

Passarono quindi alle raccomandazioni: non opporre resistenza alle aggressioni, perchè il pericolo di reazioni violente è molto elevato e gli aggressori non esitano ad uccidere; non accettare bevande o cibi da sconosciuti, soprattutto nei bar e nei locali notturni può accadere che vengano aggiunte sostanze stupefacenti nelle bibite per stordire e quindi derubare o violentare le vittime; evitare i quartieri isolati e le località appartate.

Ciliegina finale: la guerriglia rivoluzionaria è all’ordine del giorno.

Della serie “uomo avvisato mezzo salvato”, quindi.

Mi sarebbe piaciuto girare il paese in lungo e in largo, ma decisi di essere prudente, limitando i luoghi da visitare e restringere le scelte optando per quelli maggiormente battuti.

In effetti, parlare di “turismo” da quelle parti allora era impensabile. Agenzie di viaggio poche e del tutto inaffidabili, per non dire della professionalità. Quando al fai da te, coi mezzi pubblici… mah!

E allora?

Allora mi (af)fidai della señora  Soledad, proprietaria della posada consigliatami prima della partenza da un amico lussemburghese. Posada posta nella prima periferia di Guatemala City. Suo nipote Damian, studente universitario, per permettersi di frequentare la facoltà di lingue, si prestava a portare in giro gli ospiti, assicurando così in incorrere in situazioni incresciose e dando indicazioni su come muoversi e comportarsi nell’anarchico quotidiano guatemalteco. Il quale si manifestò già al secondo giorno con un tentativo di furto dello zainetto, continue richieste di dollari da cambiare, insomma esattamente quanto previsto dal decalogo che la Farnesina mi aveva fornito.

Decisi insomma di “assoldare” Damian e di uscire solo in sua compagnia.

Così potei godermi in relativa sicurezza il “cuore del Mondo Maya”, come era definito il Guatemala.

Visitai i monumenti e reperti storici di Guatemala City (chiamata più brevemente Guata), della vecchia capitale Antigua, la domenica riuscii a mescolarmi coi “chapines” sui gradini della chiesa di Santo Tomás, andai al mercatino indigeno di Chichicastenango, dove si intrecciavano usi e costumi maya e iberici. Un vero spettacolo multicolore. Evitai accuratamente, invece, di comprare poncho, pantaloni larghi e cappello da “chapinos” per non cadere nel ridicolo e passare come il solito turista a stelle e strisce.

Dedicai poi un’intera giornata all’escursione in barca (noleggiata ovviamente da Darmian) sul lago Atitlán, fino ad arrivare a Santiago per la visita del tempio dedicato a Santo Maximon. Quel lago è qualcosa che, una volta visto, non si dimentica più: un’immensa cnca tra tre vulcani incombenti. Si racconta che i maya venerassero le sue acque e tuttora i guatemaltechi, tra fede e leggenda, lo considerano luogo sacro.

Ci trovai pure una piccola comunità hippy, nota allora con il termine figli dei fiori, alla ricerca di una loro spiritualità e in difesa dei diritti delle minoranze oppresse e discriminate dei “chapines”.

Rientrammo dopo qualche giorno alla posada perché era giunto il momento di organizzare la trasferta nella zona archeologica di Tikal. Decidemmo per il trasferimento in aereo e fu un’avventura.

Il velivolo era un DC-6 del 1947, con i sedili per lo più sfondati (per potermi sedere mi fornirono un cuscino) e con una perdita di olio da uno dei motori. Le ruote del carrello erano più lisce di un pavimento di marmo. Tremolii vari, vibrazioni, oscillazioni, sussulti ci accompagnarono per le circa due ore di volo, fino a Flores. Paura? Meglio non pensare a nulla.

Il viaggio assai agitato fu però ampiamente ricompensato dalla visita ai monumenti e ai templi circondati da un’esuberante selva tropicale, habitat di numerose specie di uccelli e scimmie urlatrici, con il Museo Sylvanus Morley e la sua collezione di interessanti reperti ritrovati durante gli scavi. L’attesa ora del tramonto stava per giungere quando, guarda caso, due custodi si avvicinarono chiedendo se eravamo intenzionati a rimanere ancora un po’. Morale: per assistere al calar del sole dovemmo pagare il “pizzo”. Senza ricevuta, ma ne valse la pena.

Rimanemmo tre giorni a Tikal, pernottando in un’altra posada conosciuta da Damian e pertanto “sicura” in quella  full immersion nel misterioso mondo Maja. Al mattino la colazione era rigorosamente a base di frijoles negros, ossia fagioli neri in umido, riso, una sorta di caffè che eufemisticamente chiameremo tale. Seguiva il ritiro del lunch box per il pranzo al sacco con tamales, cioè farina di mais cotta al vapore con una varietà di ripieni avvolti in foglie di banana.

Frequenti furono nella tre giorni gli incontri con amici di Damian che amavano parlare con me e raccontare, tra il sacro e il profano, tra il serio e faceto, le verità ancora occulte di Tikal.

Ce n’erano di variegate.

La più gettonata e prevedibile era che la civiltà maya fosse entrata in contatto con esseri “extraterresti”, considerati ed adorati come Dei, che avrebbero loro insegnato astronomia, matematica ed architettura. Il tutto avvalorato, secondo loro, dall’interrpretazione di alcune incisioni nella roccia. Altra teoria era quella secondo cui la scomparsa del regno maya sarebbe dipesa dalla deportazione di quel popolo in altri mondi ad opera dei soliti “marziani”. Pensai che anche durante un altro mio viaggio in Perù (qui) la popolazione Inca aveva interpretato nello stesso modo i famosi segni di Nazca. Le voci corrono…

Rientrato a “Guate” a casa della señora  Soledad mi misi subito a programmare altri itinerari.

Non avevo però messo in conto il verificarsi di un’altra delle sinistre profezie della Farnesina: la guerriglia.

Accadde che nelle prime ore della sera pensavo di unirmi una delle tante feste semipagane locali, attratto dai fuochi d’artificio in lontananza nella “grande Guate”. Ma all’improvviso arrivò una camionetta della “Policia Nacional Civil” che invitava tutti gli stranieri della posada a recarsi “velocemente” in aeroporto seguendo il preciso tragitto da loro indicato.

Sapevo che c’erano latenti tensioni sociali, ma questa volta scoppiata la rivolta vera e propria. Altro che giochi pitotecnici! Lasciare l’alloggio zaino in spalla, percorrere nella notte strade impervie con l’auto di Damian, imbarcarsi su di un DC-9 dell’AeroMexico con destinazione Città del Messico senza nemmeno fare il check-in, fu tutt’uno. Intorno spari, bombe, incendi e i guerriglieri a due passi dall’Aerostazione Internacional La Aurora.

Arrivato a Città del Messsico telefonai alla señora  Soledad assicurandola che ero arrivato sano e salvo. Damian mi disse: “Come al solito tanto rumore per nulla: scontri violenti ma la “revolution”, quella vera, è stata rimandata. E comunque ricordati che dobbiamo finire di visitare il Guatemala!

Sono passati 45 anni e non è ancora avvenuto.

E’ proprio vero: ogni lasciata è persa”.