di URANO CUPISTI
Tra il Candelabro di Paracas e le linee Nazca, via Ballestas, cercando di digerire il ceviche che, forse, fu la vera causa della fuga degli alieni dalla Terra. E che io stesso sto cercando di digerire dal 1981…

 

Una bella mattina, dopo una lunga dormita per riprendermi dagli sbalzi di altitudine andini dei giorni precedenti, mi misi lo zaino in spalla e mi incamminai verso la stazione degli autobus di Lima.

Ci vollero quattro ore e mezzo lungo la mitica Panamericana per fare i 250 Km che separano la capitale dalla cittadina Pisco, nel distretto di Inca, scelta come base per la visita della riserva naturale di Paracas.

Già allora (1981) era a pagamento, ma al posto dei caselli c’erano delle barriere in muratura.

Dal finestrino notai che, qualche chilometro prima del pedaggio, parecchie vetture uscivano dalla carreggiata e imboccavano tracciati sterrati paralleli per poi rientrare una volta aggirata la barriera. E la polizia, chiesi? Un simpatico compagno di viaggio mi spiegò che “il sacrificio di un automobilista”, sanzionato dalla stradale, permetteva ad altre decine di non pagare. Che dire?

Arrivato a destinazione, passai due notti dall’Ermelinda, che non era una compiacente signora ma il nome della posada appena fuori città che avevo scelto come base.

Fu lì che conobbi il ceviche.

Si tratta di una piatto tipico fatto con un misto di pesce e crostacei marinati nel lime, con aggiunta di cipolle e  peperoncino e servito con salsine piccanti. Quelli del posto mi dissero che che digerirlo “no es un problema” se innaffiato con il pisco locale, un distillato d’uva buono per tutte le occasioni. Sull’etichetta lessi che era fatto in Cile: una bevanda nazionale peruviana prodotta all’estero? Preferii non indagare, ma una cosa la capii presto: con gli occidentali l’effetto digestivo funziona poco o nulla.

La mattina dopo infatti non riuscii a fare colazione. Il ceviche ancora nuotava nel mio stomaco pieno di pisco. La signora della posada mi accompagnò all’imbarcadero nella Marina Turistica di Paracas giusto in tempo per la partenza, il mare era agitato ma “los tours se realizan en cualquier clima”. Insomma non avevo scampo.

Mi ritrovai in mezzo a una turba di giapponesi più inquieti dell’oceano. Mentre rollava tra le onde io, figlio di lupo di mare abituato a marosi ben peggiori di quello, io ero impegnato a ripensare all’accoppiata ceviche-pisco.

Ci vollero trenta minuti di viaggio per arrivare in un punto in mezzo al mare, ancora distanti dalle Isole Ballestas, per ammirare e fotografare il famoso Candelabro di Paracas. Tutto bene fino a quando spensero i motori e l’imbarcazione, come un guscio di noce, prese a volteggiare sulla cresta delle onde. Fu in quegli interminabili minuti, mentre i giapponesi si affannavano a scattare foto a tutto spiano, che potei rivedere da vicino tutta la cena della sera prima. Fu la liberazione che mi permise di ammirare le isole e il candelabro nella loro magnificenza.

Pinguini, leoni marini, cormorani e altre decine di migliaia di uccelli vivono alle isole Ballestas, dove le fredde acque dell’oceano tengono lontano i predatori.

Ma è l’acre odore del guano a renderle uniche. Un pontile come attracco e una gru mangiata dalla salsedine a indicare l’approdo delle navi che trasportano “l’altro oro del Perù”. Basti pensare che gli escrementi dei circa 300.000 cormorani residenti stabilmente sulle isole valgono 400 dollari a tonnellata e che l’esportazione di questo fertilizzante naturale si attesta tutt’oggi a circa 1.300.000 tonnellate annue, rappresentando così una delle entrate maggiori dell’intero Paese.

Poco abituato a quell’odore nauseabondo e non ancora del tutto libero dal ceviche, provai enorme sollievo nel doppiare l’ultima punta sud dell’isola maggiore. Una ventata fresca mi fece rinascere: il viaggio nel mio Perù misterioso cominciava lì.

Il candelabro è lungo più di 180 metri, inciso sul fianco della collina, ed è visibile dal mare fino a dieci miglia. Risalirebbe al III secolo a.C. anche se recenti studi lo fanno anche più antico. Tutt’oggi l’origine e la funzione sono avvolti nel mistero e le teorie si sprecano: un simbolo divino? Un riferimento per i marinai? I conquistadores spagnoli lo credettero una rappresentazione della Santissima Trinità, un segnale celeste per l’opera di evangelizzazione del Nuovo Mondo. Non manca chi ipotizza una segnaletica per l’atterraggio di astronavi aliene, da ricondurre ai segni di Nazca non tanto distanti da Paracas.

Qualunque sia la verità, il maestoso geoglifo emana un fascino misterioso.

Ritornato a Pisco, prima di raggiungere la posada, entrai in una bettola per fare due chiacchiere davanti a un bicchiere di pisco (ovviamente). Alla domanda di cosa pensassero del significato del candelabro, gli avventori mi suggerirono di interpretarlo come uno dei fulmini nella mano del dio Viracocha, la grande divinità creatrice della mitologia pre-Inca e Inca della regione delle Ande del Sud America. Secondo il mito, dopo aver creato il sole, la luna, le stelle e l’uomo, Viracocha scomparve oltre l’Oceano Pacifico, promettendo di ritornare nei momenti di difficoltà. Il candelabro sarebbe stato la traccia per ritrovare la strada.

Dopo il terzo bicchiere mi convinsi anch’io che avevano ragione.

Ma dovevo affrettarmi: avevo un appuntamento presso l’Hotel de Turistas di Nazca, alloggio provvisorio di Maria Reiche, matematica, archeologa, massimo esponente della scuola di pensiero secondo la quale tutti i segni, compreso il candelabro di Paracas, altro non sono che parte integrante di un grande calendario solare e un osservatorio per i cicli astronomici.

Tedesca di nascita e formazione, peruviana di adozione, nel 1981 aveva 78 anni. Si aiutava con una sedia a rotelle e sapevo della sua cordialità nell’intrattenersi con gli ospiti dell’Hotel e non solo. Ogni sera, al tramonto, l’Hotel de Turistas si trasformava così in una vera e propria aula universitaria, con tutti ad ascoltare e fare domande alla poliglotta Señora Maria. Ben cinque lingue, tra cui l’italiano, parlate con l’inconfondibile cadenza, peccato originale, dovuto al luogo di nascita e adolescenza: Dresda.

Poi, al mattino dopo, tutti all’aeroporto per imbarcarsi su piccoli aerei a osservare quanto raccontato la sera precedente: il ragno, che in natura sarebbe riconducibile alla varietà “Ricinulei” (secondo la studiosa sarebbero state in realtà linee riconducibili alla costellazione di Orione), la scimmia, riconducibile all’Orsa Maggiore, l’astronauta, uno sciamano o un sacerdote e il colibrì la più “gettonata”, lunga 94 metri e larga 66, rappresenta l’uccello ritenuto messaggero divino dalle antiche popolazioni della zona.

Coincidenza straordinaria, proprio nei giorni della mia permanenza a Nazca si svolgeva anche il raduno nazionale degli “ufologi”. Decisi così di partecipare alla proiezione del film “Gli extraterrestri torneranno” (Erinnerungen an die Zukunft), in lingua tedesca sottotitolato in spagnolo, film del 1970 diretto da Harald Reinl e basato sul libro omonimo dello scrittore svizzero (nonchè archeologo dilettante) Erich von Däniken.

Egli sosteneva che le divinità e gli angeli di cui parlano Bibbia, Corano e numerosi testi sacri antichi erano visitatori alieni che i miracoli troverebbero una spiegazione solo in chiave ufologica e che da questo sarebbero dipesi l’adorazione del popolo Nazca e l’intepretazione dei disegni, veri e propri segnali di richiamo per velivoli extraterrestri.

Teorie che francamente non mi convinsero molto, ma su cui riflettei a lungo.

Una delle domande più frequenti che mi ponevo era perchè i marziani avrebbero dovuto abbandonare la Terra. Poi valutai che gli aborigeni potessero aver offerto loro il ceviche e mi detti una risposta.