La componente umana, l’imperfezione dovuta all’approssimazione dei sensi, l’errore, il caso, la fatalità sono elementi non solo ineliminabili, ma necessari nello sport che si voglia ancora definirsi tale, cioè basato sulla fisicità delle cose e delle persone. Si mettano arbitri di porta, si raddoppino i fischietti ma rifuggiamo dall’idea di un “grande fratello” elettronico capace di azzerare sbagli ed abbagli. Depurare il calcio dall’imponderabile equivarrebbe a ucciderlo. E a uccidere noi stessi.

Lo dico chiaro e tondo: io sto con Blatter. Sto con lui contro ogni forma di tecnologizzazione degli arbitraggi. Contro i microchip occultati nei palloni. Contro la moviola in campo. Mi piace il calcio imperfetto, l’arbitro che sbaglia (e che, se se ne accorge, rimedia), quello che viene colpito dal pallone e lo devia in porta, quello a cui il calciatore fa bere la simulazione, quello a cui sfugge il cazzotto dato a palla lontana. Anche se poi sono il primo che si arrabbia per gli errori, maledice il direttore di gara, impreca contro la di lui moglie, invoca le ingiustizie subite a giustificazione delle sconfitte.
Mi piace lo sport che resta umano, con i suoi limiti fisici e sensoriali, con i suoi sbagli, i suoi gol fantasma e i suoi fuorigioco inesistenti.
Mi piace se il prezzo per evitarli è disumanizzare lo sport, introducendo sensori elettronici e telecamere ovunque.
Lo so, le telecamere ci sono già. Lo so, è assurdo che il gol regolare dell’Inghilterra sia stato visto in mondovisione, praticamente in diretta, grazie al replay e che col fuorigioco di Tevez Rosetti così ci ha fatto la figura del cretino, lo so che senza riprese a bordo campo nessuno avrebbe filmato della testata di Zidane a Materazzi. So tutto. E lo condivido.
Eppure un calcio senza tecnologia continua a sembrarmi migliore. L’errore zero non esiste in natura, come la linea retta. Preferisco un gol fatto per caso, con un tiro sporco e un pallone sbilenco, piuttosto che una rete da cineteca realizzato grazie a qualche congegno (tanto di arriveremo) che corregge automaticamente la direzione della palla calciata male.
Così dev’essere per gli arbitri che, non dimentichiamocelo, sono parte del gioco. L’arbitro, può, anzi deve sbagliare. Per assottigliarne i margini di errore in uno sport sempre più veloce, si possono forse aumentare gli uomini, mettere l’arbitro di linea (o meglio di porta), ma non sostituirli con degli automi infallibili. Non si può trasferire sul campo di calcio la smania di giustizia perfetta, per non dire di giustizialismo, che si è impadronita della società e che la spinge a pretendere sentenze perfette, indagini certe, prove univoche. Basta col buonismo del fair play che tutti predicano e nessuno pratica, come se il fallo più cattivo, l’accentuazione delle cadute, gli accidenti e gli insulti all’avversario non esistessero. Invece ci sono sempre stati, sempre ci saranno ed è bene che sia così. Come le botte: si danno e si prendono, nei limiti del ragionevole. Perchè è la nostra natura ad essere imperfetta. E quindi anche il calcio. E quindi anche l’arbitro. E quindi anche le sue decisioni, che devono restare ragionevolmente opinabili. In modo che dopo ci si possa litigare su per tutta la settimana. Questo è essere sportivi: accettare le cose come sono, come vengono, inclusi errori, ingiustizie, fatalità. A starsene buoni quando ogni casa va bene sono bravi tutti. O no?