E anche questa edizione è andata: a un anno dal “rimpatrio” a Fieramilanocity, l’ex megakermesse italiana del turismo prova a frenare la caduta. Che forse, però, non è della manifestazione in sè, ma del modello. Tutto organizzativamente funziona, contatti e affari non so.

 

Per il secondo anno la Bit è tornata in centro o quasi a Milano, ma l’effetto deja vu che mi aspettavo non c’è stato. Non so se perchè sono rimasto un giorno solo, l’ultimo tra l’altro, o perchè non è bastata la location assai più comoda e ottimamente servita (bisogna ammetterlo: metro a 10-passi-10 dall’ingresso) ad attirare i giornalisti del settore, o perchè (temo!) di quei giornalisti ne sopravvivono ormai sempre meno, come i panda.
Comunque ho passeggiato qualche ora, salutato qualche amico ma molti meno del solito, visto un po’ di stand, schivato i consueti cacciatori di gadget con trolley al seguito eccetera
Le riflessioni sono sempre le medesime.
La bontà degli spazi è decisiva per la riuscita di una manifestazione e questi della Fieramilanocity mi paiono, oggettivamente, ottimi: ampi, ben tenuti, ariosi, funzionali.
Per le destinazioni emergenti o meno popolari, si tratta comunque di una buona opportunità per avere visibilità e allacciare rapporti su cui costruire qualcosa.
Per i giornalisti, a parte il caso sopra, è invece quasi tempo perso.
Anche perchè gli enti latitano e, quando non latitano, tendono a confermare (mi perdonino le eccezioni, che ci sono, ma restano eccezioni) l’involuzione che, in tre lustri, li ha trasformati da ambasciatori della cultura dei propri paesi in meri distributori di brochure propagandistiche. Nella quasi totalità dei casi, se un giornalista chiede informazioni appena meno ovvie delle solite, spesso ne sa più lui dei suoi interlocutori, che poi si rivelano incapaci anche di dare risposte o suggerimenti o chiavi di accesso. La “lettura” di un paese, la sua comprensione appena un po’ più profonda, una conoscenza che vada oltre i luoghi deputati al turismo di massa o comunque alla sua dimensione commerciale paiono insomma non essere più contemplati tra le finalità di queste istituzioni. Le quali infatti – te lo fanno chiaramente intendere – non sono lì per dare dritte o assistenza ai giornalisti, ma al pubblico vacanziero che insegue i depliant del viaggiare omologato o, al massimo, ai travel blogger compiacenti e convogliatori di click.
Anche la “nicchia” è spesso solo sedicente e comunque avvertita come una gabbia dalla quale liberarsi il prima possibile, così come il transito dal viaggio verso il più banale turismo sembra percepito più come un male necessario che un motivo di distinzione.
Di come siano andati gli affari, non saprei dire. Spero siano andati bene.
I comunicati sono trionfalistici, ma questo conta poco.
E comunque, alla fine dei giochi, i discorsi che vengono fuori tra i reduci sono sempre gli stessi: meno male che abbiamo avuto la fortuna di viaggiare in tempi in cui andare in un posto anzichè in un altro significava visitare luoghi diversi. A giudicare da quello che si vede in giro, invece, pare che le destinazioni cambino, ma il prodotto turistico sia sempre lo stesso.
La domanda finale, senza risposta, è: ci sono tante cose che non ti lasciano conoscere o non ce n’è rimasta quasi più nessuna e pertanto tutto ormai si somiglia?