Il “Manifesto dell’informazione turistica e agroalimentare”, presentato ieri al termine degli “Stati Generali” della stampa di settore ora lo mette nero su bianco: ha tutto l’aspetto della prima spallata per trasformarci, ex lege, da giornalisti in “comunicatori”.

 

Ci eravamo lasciati (qui) con qualche patema nell’attesa del “Documento finale” (espressione politico-sindacale agghiacciante, poi fortunatamente mutata in “Manifesto”) degli Stati Generali dell’Informazione Turistica e Agroalimentare convocati nei giorni scorsi a Milano da Gist e Arga.

E ora che il Manifesto (qui) l’abbiamo in mano, l’ansia non si è placata. Anzi, abbiamo la conferma di certi sospetti e di certe latenti tendenze che avevamo annusato nell’aria sia prima che durante l’assise.

Anzichè commentarlo passo per passo, preferisco tuttavia lasciare al lettore la possibilità di scorrerselo con calma e faccio solo una considerazione generale.

Diciamo subito comunque, per dare a Cesare quel che è di Cesare, che la manifestazione è riuscita molto bene: ampia partecipazione, organizzazione ineccepibile, sedi adeguate. E soprattutto ha avuto il merito di aver portato in superficie, e poi di aver messo nero su bianco, tutte quelle cose che, dicevo, aleggiavano.

Aleggiavano nei corridoi durante la plenaria, poi con più spigoli durante i successivi tavoli tematici (io ero a quello deontologico) e ora emergono in tutta la loro evidenza nel documento presentato alla stampa ieri mattina in Regione Lombardia alla presenza dell’assessore Lara Magoni.

E’ stata anzi proprio la Magoni a far emergere, involontariamnte forse ma in tutta la sua solarità, la questione di fondo, rivolgendosi ai giornalisti, tra la sorpresa generale, come a suoi “stakeholders“.

Stakeholders? Stakeholders di che?

La risposta è tra le righe del Manifesto e nella lacerazione intestina della categoria giornalistica che esso, sotto le mentite spoglie della forma programmatica, mette a nudo: alla fine dei dibattiti è emerso infatti con chiarezza che c’è una parte dei giornalisti decisa a restare tale, a continuare cioè a fare informazione vera e propria (traduzione: racconto della verità verificata e riportata attraverso il filtro della deontologia professionale), e un’altra che invece, per ragioni anche parzialmente comprensibili di sopravvivenza economica, vorrebbe avere vincoli etici meno stretti e poter fare pure “comunicazione“, cioè produrre contenuti per i giornali, ma senza l’obbligo della terzietà. Restando però giornalisti, si capisce. Quando, a modesto giudizio di chi scrive, basterebbe fare come tutte le persone normali: se un lavoro non va, se ne fa un altro, chiamandolo col suo nome.

Visioni chiaramente inconciliabili, insomma, alla luce dell’essenza del mestiere così come siamo abituati ed è giusto che sia inteso.

Naturamente, le cose non sono però così semplici: in mezzo ci sono anche un terzo e un quarto incomodo.

Il terzo incomodo sono gli “-er” (blogger, influencer, instagramer, etc), ovvero tutto quel mondo legato al web marketing e ai relativi strumenti, ovvero i social network, che da un lato si è accaparrato da tempo la produzione dei contenuti sponsorizzati, ora reclamata o agognata da una parte dei giornalisti, e che dall’altra rimprovera (non senza qualche ragione) alla fazione più integralista dei medesimi di essere la prima a violare, occultamente, le norme deontologiche che i suoi membri sbandierano come una clava di purezza.

Non solo nell’opinione pubblica, del resto, ma anche tra gli addetti ai lavori, sull’argomento la confusione concettuale e di strumenti è totale: social usati come mezzi di informazione, giornali usati come leve di propaganda, giornalisti e “-er” che si scambiano ruoli e funzioni nel nome di un lavoro liquido che non solo non ha più un nome o un perimetro, ma spesso neppure delle regole.

Ecco, le regole, appunto: secondo la curiosa teoria dei giornalisti-aspiranti-influencer le norme deontologiche del giornalismo andrebbero sì mantenute ma addolcite, per consentire agli iscritti all’OdG di fare ciò che attualmente in teoria non possono fare, ovvero le reclame. Idea che trova parzialmente favorevoli anche una quota degli “-er”, desiderosi a loro volta di una sorta di legittimazione professionale da ottenersi attraverso l’introduzione di qualche “norma” (con conseguenti doveri) che li renda categoria, assimilandoli in parte ai giornalisti.

Traduzione: c’è chi auspica, e perfino chiede, il riconoscimento di un “terzo sesso” dell’informazione, a cui apparterrebbero sia dei giornalisti liberi di fare marchette, sia degli “-er” professionalizzati e inquadrati normativamente.

Detto fra parentesi, mi fa rizzare i capelli che sempre più, nell’accezione comune, tali figure mezzingole vengano individuate nel “freelance” e che costui venga costantemente definito “imprenditore di se stesso“, a conferma del definitivo divorzio tra la nozione di libera professione e quella, naturale, di libero professionista iscritto a un ordine professionale.

Ma si diceva del quarto incomodo.

Eh già, chi sarà mai il quarto incomodo, nonchè il mantice che, con falsa ma ostentata indifferenza, soffia sul fuoco della “fusione” tra “-er” e “autoimprenditori”, nel nome di un giornalismo dalle regole meno “rigide”?

Provate a indovinare: ha bisogno come l’aria di iscritti, non rappresenta quasi più nessuno, ma non intende rinunciare a un grammo di un potere che, senza una base, è però sempre più fragile, contende all’OdG il ruolo ed aspira a sostituirsi ad esso, secondo certi modelli transalpini, qualora l’Ordine, come si dice e come lo stesso sottosegretario Crimi (non a caso portatore di un’idea “sincretica” di informazione fatta di utenti del web) fa intendere di desiderare, fosse destinato all’abolizione. Primo passo di un trend annunciato e di pingui “casse” da conquistare.

Il tutto sulla pelle del lettore e dell’informazione, è ovvio.

Prepariamoci alla trincea.