di URANO CUPISTI
Nel 1989 ero partito per il Nepal, ma circostanze tragicomiche mi obbligarono cinque giorni nella capitale del Bangladesh. Esperienza illuminante e per certi aspetti indimenticabile. Ma non profumata.

 

All’inizio volevo andare in Nepal. A Dacca e al Bangladesh non ci pensavo proprio.

Fu per “colpa” della compagnia aerea (scelta ovviamente per ragioni economiche, ossia per risparmiare, visto che allora non esistevano i voli low cost), suggeritami dal solito amico viaggiatore ben informato, che invece mi ci ritrovai.

Del resto, volare con compagnie non IATA significava doversi dimenticare degli orari dei voli. Sapevi quando partivi, magari con forti ritardi, ma era impossibile conoscere l’ora di arrivo. E anche in tal senso, in quell’ottobre del 1989 ne accaddero di tutti i colori.

Il vettore era la Biman, linea di bandiera del Bangladesh. Piano di volo: Roma – Londra –  Sharjah (Emirati Arabi, scalo per il rifornimento) – Karachi – Dacca. Sosta di tre ore prevista per cambio aereo. Volo successivo, il diretto Dacca – Katmandu.

Andò in modo assai diverso.

Arrivai a Fiumicino con bagaglio adeguato, ovvero uno zaino capiente con indumenti per una settimana, che avrei lasciato lungo il viaggio e sostituiti con altri acquistati in Nepal evitando, così, la fastidiosa incombenza del lavaggio.

All’interno dell’aeroporto, però, del banco Biman non c’era traccia. Percorsi tutta la sala partenze e, giunto alla fine, scorsi un gruppo di giovani, tipo figli dei fiori, già immaginando che quelli sarebbero stati i miei compagni di avventura.

Chiedo: “Biman?“. Risposta: “Già“. Un ragazzo di Frosinone si avvicinò e mi disse: “Ci hanno detto di attendere. La Biman non è una linea aerea IATA e quindi le altre hanno la precedenza. Chiamano loro al momento opportuno”.

Il momento opportuno arrivò dopo cinque ore dall’orario di partenza prevista, a notte fonda.

Arrivati a Heathrow (Londra) ci parcheggiarono in un’ala distante dal terminal, senza farci scendere. Aspettammo l’alba. Tre ore, abbandonati senza alcuna assistenza.

Nel frattempo, a bordo, nell’ordine c’era: chi pregava, chi faceva esercizi yoga, chi avendo – rinunciato al mondo per vivere in solitudine, dedicandosi alla meditazione attraverso una rigorosa pratica spirituale – contava le ore che lo separavano dall’agognata meta, cioè raggiungere la città sacra di Pashupatinath a Kathmandu, e chi mi guardava con sospetto per capire cosa ci facevo su quell’aereo. Insomma si era cominciato bene.

Una volta ripartiti, aria fresca per tutti e tappe come previste dal piano di volo. A Sharjah ci fecero scendere per ragioni di sicurezza. L’aeromobile fece il pieno di carburante. Forse costava meno?

E poichè i ritardi accumulati avevano fatto saltare la coincidenza prevista, il risultato è che fummo scaricati cinque giorni a Dacca in attesa del volo successivo .

Non ero in possesso del visto di uscita, perché da lì avrei dovuto solo transitare.

Mentre i miei compagni di viaggio cercavano il posto migliore per trascorrere i cinque giorni, mi avvicinai ad un doganiere e chiesi se c’era la possibilità di raggiungere il centro città.

Dopo una trattativa un po’ lunga, alla fine mi suggerì di mettere alcuni “bigliettoni” di piccolo taglio (50 dollari) all’interno del passaporto indicandomi quale uscita utilizzare. Mi ritrovai fuori dall’aeroporto con un visto turistico di 7 giorni sul passaporto.

Presi un tuck-tuck facendo vedere al conduttore il nome dell’hotel raccomandato dal doganiere, scritto in bengalese, e via verso il centro città pensando che, in fondo, tutto il mondo è paese. Era cominciata la mia imprevista visita a Dacca.

L’hotel  si rivelò come l’opportunità, se l’avessi accettata, di un lavoro in quel paese: intraprendere la carriera di attore. Mi fu chiesto di partecipare alle riprese di un film, produzione Bollywood, come comparsa. Film che poi non uscì mai, ma le scene furono utilizzate come fotoromanzo.

La mia parte consisteva nello stare seduto su di un divano nella hall, intento a leggere un quotidiano mentre gli attori recitavano la loro parte. Fu un vero spettacolo, anche perché solo alla fine mi accorsi che stavo tenevo il giornale alla rovescia.

Visto che la mia carriera cinematografica era finita lì, mi dedicai alla città.

La trovai come tutte le città indiane d’oriente: una Calcutta in dimensione ridotta. Umidità a livelli impensabili, soprattutto la notte. Crogiuolo di etnie e religioni diverse, dove la fede musulmana era prevalente. Affollatissima e super inquinata già allora, con mille problemi, contraddizioni e uno stile di guida abbastanza disinvolto. Eccessiva, assordante anche di notte, troppi cavi elettrici: troppo di tutto.

In albergo di parlava l’inglese e un po’ di francese. Fuori, tra la gente, si parflava la migliere e la più internazionale: a gesti.

D’obbligo fu visitare il mercato, di dimensioni enormi. Scoperto e coperto, isolati su isolati dove vendevano qualsiasi cosa, dalla frutta e verdura alle spezie, dai casalinghi agli animali, perfino un mezzo isolato era dedicato alla sola vendita dell’aglio et similia.

Il centro, diciamo storico, era una baraonda di piccole vie, con un traffico impenetrabile e odori nauseanti. Mai come al porto, però. Lì presi un traghetto (traghetto sempre per dire) carico all’inverosimile per raggiungere l’altra sponda del fiume, il Burhi Ganga, che è un ramo del Brahmaputra e soprattutto si rivelò una fogna a cielo aperto, con una puzza stomachevole e acqua nera come la pece. Sulla riva opposta, montagne di rifiuti, in particolare pile esauste.

Fu un’esperienza al limite del sopportabile, ma illuminante per capire come si viveva lì nel 1989. Anche perchè una cosa sarebbe stato viverci un giorno, un’altra quasi una settimana, coll’opportunità di viverla dal di dentro davvero.

L’aereo per Katmandu ormai mi attendeva. I compagni di viaggio li ritrovai dove li avevo lasciati. Gli asceti o presunti tali, nel frattempo si erano preparati alla maniera dei sadhu, disegnandosi sulla fronte le tre linee del tridente di dio colorate in pasta di cenere e di sandalo.

Eravamo davvero pronti per il Nepal.