di STEFANO TESI
Mani del Sud Salice Salentino Bianco 2013 Apollonio: dai memorabilia di antiche avventure enogastropodistiche affiora una bottiglia che sembra un signore di mezza età, ormai saggio ma ancora aitante, bello impettito e pieno di forza.
Le certezze stavolta erano tre.
La prima è che questa bottiglia stava nella mia cantina certamente dal 2014, ma di preciso non riesco a rammentare al ritorno da quale viaggio in Puglia ci sia finita. La seconda è che, comunque, l’azienda (gloriosa: nacque nel 1870) me la fece conoscere l’amica Vittoria Cisonno ai tempi del leggendario Pellegrinaggio Artusiano di quel medesimo anno, sulle orme dei cavalieri della disfida di Barletta. La terza è che, al solito, essa giaceva dove non avrebbe dovuto stare, ossia in una cassa con una miscellanea di Brunelli. Ed è per questo che fino a due giorni fa era ancora intonsa.
Infatti ieri l’ho trovata, messa in fresco e stappata.
Tappo del tutto integro, ma non sapevo che aspettarmi. Temevo, a dire il vero, un vinone un po’ appannato.
Dalla controetichetta apprendo che il vino viene da uve all’80% Chardonnay e al 20% Sauvignon blanc coltivate sui terreni argilloso-calcarei del Salento. E che prima di finire in vetro si è fatto tre mesi di barrique. Il grado alcolico è rassicurante: 13°. “Vino non filtrato”, dice sempre la controetichetta, “decantazione raccomandata”.
Io in realtà l’ho fatto solo attendere un po’ nel bicchiere, ma nemmeno troppo perché la curiosità era tanta, la sete pure e la voglia di metterlo alla prova in una cena di mezza stagione, con dei gustosi e profumati spiedini di carne bianca molto speziati, anche di più.
Nel calice si è rivelato di un oro intenso, molto carico, quasi vitreo.
Al naso i sentori si sono srotolati invece lentamente, uno dietro l’altro, come le tinte di un tappeto rimasto a lungo dimenticato e di cui non rammentavi bene tutti i colori: l’attacco è quello della classica pietra focaia, dell’olio minerale, dell’acciarino e di certi robot-giocattolo metallici con le rotelle sotto e caricati a molla, che roteavano gli occhi e sputavano odorose scintille, alimentando la fantasia (e la futura memoria olfattiva) della nostra infanzia. Poi, col passare dei secondi, affiorano anche la polpa bagnata delle pesche mature e alcune note esotico-tropicali che fanno progressivamente capolino, senza tuttavia prevalere sul resto.
In bocca, anche dopo dieci anni, la struttura del vino si mostra il tutto il suo vigore, ma l’insieme è elegante, pacato, di un’ampiezza composta che si fa apprezzare. L’affianca una piacevole nota amarognola che accompagna a lungo il sorso aiutandolo a restare bello dritto, quasi impettito, preciso e tagliente come potrebbe essere il fisico di un tipo di mezza età, ormai saggio ma ancora aitante e nel pieno delle forze. Un connotato che non abbandona il vino nemmeno quando la temperatura sale un po’.
Succede così che, a questo desco familiare di una primavera che non si decide a diventare tale, in breve tempo se ne vanno due bicchieri e parecchi spiedini. Poi la bottiglia finisce e gli spiedini pure. Faccio scolare dal calice le ultime gocce e mi ricordo dell’avviso in etichetta giusto per notare che, sedimenti, zero.
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